Il richiamo: “La comunicazione è parte della cura e va insegnata”. Ma in pochi sono disponibili a fare da tutor per gli studenti.
Dopo pochi secondi – circa undici, secondo alcuni studi – cominciano a interrompere i pazienti. I quali, in otto casi su dieci, impiegherebbero non più di due minuti per inondare il loro interlocutore con il racconto dei propri malesseri. L’interlocutore è il medico – di famiglia o ospedaliero, superspecialista o meno -, che non ascolta o ascolta poco. Visita in fretta, anche. Non è la regola, ma nemmeno l’eccezione.
Poco tempo e molti pazienti da seguire. Molti adempimenti amministrativi e, talora, poca empatia verso il malato: frustrato nelle sue aspettative a scapito del rapporto di fiducia con il medico, al quale vorrebbe affidarsi e con il quale sovente finisce per incrociare la lama nelle aule dei tribunali. Perché se aumentano le denunce contro i camici bianchi – che cercano di cautelarsi sottoponendo i pazienti a tutti gli esami possibili, la cosiddetta “medicina difensiva” – è altrettanto vero che un numero rilevante di cause nasce non tanto da errori medici, quanto da incomprensioni relazionali. Poca anamnesi, molta (troppa) diagnostica. Molti dati caricati sul computer, poco tempo dedicato alla visita. “Il tempo della comunicazione medico-paziente è da considerare tempo di cura”: legge 219 del 2017. In teoria.
Il primo richiamo è stato lanciato nei giorni scorsi ai nuovi iscritti da Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei medici di Torino: «La capacità di ascolto e la comunicazione sono fondamentali; gli esami diagnostici non possono prescindere dalla visita obiettiva, basata sul contatto fisico; guardare negli occhi i pazienti durante la visita aumenta il senso di vicinanza e di alleanza contro la malattia; meno attenzione al computer e più attenzione al malato; i malati “difficili”, perché noiosi o antipatici, sono quelli ai quali dovete prestare maggiore attenzione».
Il secondo campanello di allarme è risuonato ieri mattina, durante la giunta della Scuola di Medicina: gli studenti faticano a trovare medici presso i quali fare i tirocini professionali. Perché? Perché presuppongo un supplemento di tempo e di attenzione da parte del tutor. Due facce dello stesso problema, soprattutto nelle grandi città. E che problema. Al punto che Giustetto caldeggia l’inserimento della comunicazione medico-paziente nella didattica dei corsi di laurea. Non si tratta di criminalizzare la categoria, alle prese con organici in riduzione e carichi di lavoro in aumento, ma di affrontare un tema di cui c’è consapevolezza tra gli stessi medici.
Sentite Roberto Venesia, presidente Fimmg Piemonte (Federazione dei medici di famiglia): «II tempo di relazione è tempo di cura, anche il miglior clinico o chirurgo perde efficacia se non è in grado di comuni care in modo efficace con l’assistito. Come minimo, non si ottiene l’aderenza alla terapia. Ecco perché la comunicazione medico-paziente dovrebbe rientrare tra le materie di studio nei corsi di laurea. Ma bisogna anche mettere i professionisti in condizione di lavorare serenamente». Non a caso, Venesia perora un “micro-team”, composto da un assistente di studio e da un infermiere, proprio per permettere ai medici di fare i medici.
Prudente Diego Pavesio, medico di base: «II problema esiste, ma la capacità comunicativa, che è essenziale, è parte del nostro hardware e non è facilmente influenzabile. Né si impara con un corso online. Paradossalmente, pseudomedici e cialtroni riescono a dare alla gente il tempo e l’ascolto che i medici veri non riescono o non possono dare. Così, tra un fiore di Bach e un naturopata, si arriva a pazienti col melanoma in mano ad hameriani». In ogni caso, avverte, «guai a trascurare i tantissimi casi di buona medicina, di empatia, di sacrificio e di stress da parte dei medici, protagonisti di quello resta pur sempre il miglior sistema sanitario pubblico al mondo».
Redazione Nurse Times
Fonte: La Stampa
Lascia un commento