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“Tanto ce la fate!”. Ma Pasquale, infermiere, chiuse gli occhi per sempre

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“Sai chi è morto?”  Quanti di noi nella vita si sono sentiti rivolgere questa domanda? Quattro parole che ti lasciano impietrito, senza fiato, in attesa di sapere chi ha chiuso i suoi occhi e si è addormentato per sempre.

E’ la domanda che probabilmente si sono sentiti rivolgere a bruciapelo i colleghi di Pasquale quattro anni fa, al loro arrivo in ospedale per il turno del mattino.

Perché questa è la storia di un infermiere il cui cuore non ha più retto.

A raccontarcela è Umberto, in un post toccante su una pagina facebook, in cui descrive in poche ma semplici parole la sua amarezza per un sistema che da te, infermiere, esige sempre di più senza ricordarsi che tu sei un essere umano, con tutti i limiti che un essere umano può avere.

Siamo in una notte d’estate, stagione in cui i vertici aziendali decidono di ridurre il personale, perché a loro dire “d’estate si lavora di meno”.

In tanti sono sulle spiagge, cullati dal ritmo delle onde che s’infrangono sulla riva di chissà quale magnifica località turistica, mentre in ospedale rimangono in pochi, quelli che non possono rimandare le cure. Ci sono anche le ferie dei dipendenti con cui fare i conti. Per loro è il momento propizio per risparmiare. Perché assumere dei sostituti?

Chi c’è farà qualche sforzo in più, ce la farà di sicuro, magari andrà una volta in meno al bagno.

Avranno pensato questo i dirigenti dell’ospedale in cui lavorava Pasquale.

Allora si passa da tre infermieri più un OSS per turno, a tre infermieri senza OSS per sedici malati chirurgici.

Li immaginiamo mentre dicono “tanto ce la fate!” a chi lo sforzo lo deve fare davvero, attento a non commettere mai errori, perché la giustizia non perdona neanche un attimo di stanchezza.

Quella notte d’estate di quattro anni fa, però, come se non bastasse, gli infermieri in quel reparto erano solo due.

Umberto ci racconta che il lavoro era tanto. Chissà se anche loro, come mio padre, infermiere pure lui, avanzavano a passo stanco ma incessante con le occhiaie sul viso, prestando assistenza alle persone ricoverate.  C’erano da fare prelievi urgenti, ma bisognava addirittura scendere per andare in laboratorio,  cambiare pannoloni, attività completamente estranee alla nostra professione, quindi.

Qualcuno, però, doveva pur farlo e come sempre accade in questi casi, è all’infermiere che si chiede di compensare.

Dopo un po’ Pasquale si allontana dal reparto. Un momento di pausa, ne sente il bisogno. Umberto rimane lì ad aspettarlo.

Ok, Pasquale. Va’ pure, tranquillo.

Il tempo passa, Umberto lavora senza sosta. I campanelli continuano a suonare, continuamente. La conosciamo quella sensazione, ci sentiamo continuamente sballottati da una parte all’altra, chi chiama da una stanza, chi dall’altra, magari qualcuno che ce la fa ti cerca anche in corridoio.

Umberto si rende conto che non ce la fa da solo, ha bisogno del suo collega.

Pasquale, ma dove sei? Ho bisogno di una mano.

Ma Pasquale non tornava. Pasquale non poteva più tornare.

Umberto l’ha trovato fuori al balcone, su una sedia, accasciato. Pasquale non c’era più. Il suo cuore ha smesso di battere sotto il cielo di una notte d’estate.

“Sai chi è morto?”. Un infermiere, un nostro collega, un uomo a cui hanno chiesto (imposto) di lavorare di più per sostituire più figure mancanti perché “tanto ce la fate!”.

Certo che la vita oggi è frenetica e le malattie cardiovascolari in costante aumento, così la parola infarto ha finito con l’assumere un ruolo familiare.” – Mi scrive Umberto – “Che dire poi quando è il tuo stesso lavoro che ti porta stress e tensione? Agli occhi degli altri, noi del personale ospedaliero siamo fortunati. Per chi non è della professione abbiamo ritmi ed orari tranquilli anche se non c’è flessibilità. La paura di far tardi per timbrare il cartellino ed entrare in servizio è ritenuto jogging alternativo che non può che farci bene, la precarietà non è che uno stimolo, una bella dose di adrenalina.

Traspare mestizia e rassegnazione nelle sue parole…

Enormi carichi di lavoro, personale ormai logoro, spremuto come un limone, costretto a fare il suo lavoro e anche mansioni altrui. Che dire delle condizioni strutturali e ambientali in cui siamo costretti ad operare da decenni?Reparti ormai fatiscenti, in cui persino i bagni del personale sono collocati fuori dal reparto, così ti tocca decidere se espletare i tuoi bisogni fisiologici o rispondere a quel campanello.

Che dire, poi, del batticuore che ti dà il pensiero dei salti mortali che devi fare per arrivare a fine mese con quel misero stipendio? Per non parlare degli episodi di aggressioni verbali e fisiche da parte di parenti poco rispettosi delle regole, soprattutto sugli orari di visita.

Come possiamo dare torto a quest’uomo? Abbiamo scelto una professione in cui ci si prende cura degli altri e sapevamo che non sarebbe stato semplice, ma mai ci saremmo aspettati essere le vittime da immolare in questo sistema marcio che ormai guarda solo al bene dell’azienda, costringendoci a lavorare sempre di più e sempre più di fretta, buttando sull’altare sacrificale insieme a noi i pazienti e la qualità delle nostre prestazioni.

E’ come nella vecchia regola, ma sempre ineccepibile, del soccorritore: come possono prendersi cura degli altri, se gli stessi professionisti sanitari non riescono a prendersi cura di loro stessi a causa dei ritmi frenetici e della deprofessionalizzazione a cui sono sottoposti?

“Rivendicate la lentezza: nel nostro mondo a tutto vapore,

è un diritto delizioso di cui siamo stati privati.”

(Jean-Pierre Siméon)

 

Un ringraziamento a Umberto, collega di Pasquale, per averci raccontato la sua storia. Speriamo che questo possa dare una voce a lui e a tutti quelli che, ogni giorno, vengono oppressi da chi è comodamente seduto sulla sua poltrona e vanta come proprie altrui virtù.

 

Francesca Ricci

 

 

 

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