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Sotto il cielo di GAZA. Parte prima

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“SOTTO   IL  CIELO   DI   GAZA”

….raccontato dalla collega RENZA MARTINI, infermiera volontaria in Palestina riporta la sua esperienza sulla tragedia del popolo di Gaza, rapportandoci il dolore della guerra…IL SUO RACCONTO VERRA’ DIVISO IN 6 PARTI.

Renza Martini, nativa di Romagna ma trapiantata a Firenze, si dedica a missioni volontarie in emergenze sanitarie (terremoto di Haiti, guerra Palestina-Israele del 2009, terremoto Abruzzo). Presente in molte zone ‘calde’ del mondo si occupa di chirurgia per la cura di malformazioni genetiche. Infermiera volontaria in Iraq, Nassirya, Kurdistan iracheno prestando la propria opera in favore della cardiochirurgia infantile. Partecipa alla missione in Togo, nell’Africa centrale, dove svolge attività di assistenza sanitaria alla popolazione civile in un paese dove non esiste la Sanità.

1. Primo giorno all’ospedale di Al Alawda

E’ il primo giorno  sotto il  cielo di  Gaza, sono  nella  Striscia, Medio  Oriente.

Oltre  lo sguardo si stende  il mare , tranquillo  e azzurrino, sorvolato  dai gabbiani.

Un pallido sole, oltre le nubi  lontane, mi accompagna ad  Al Alawda, dopo aver percorso strade, che non lo sono più, spesso solo mulattiere fangose e contorte, insidiose e instabili, per l’effetto subìto nei giorni addietro : pioggia di bombe e micidiali  passaggi di tanks, le cui tracce  e solchi, persistono sotto i miei piedi, assieme al sangue dei caduti, mischiato alla polvere.

Tutto intorno, ovunque  lo sguardo mi si posi,  cumuli di macerie indefinite.

Al  Alawda: poco più che una palazzina di alcuni piani.

Definirlo ospedale è fin troppo gratificante. Circondato da fatiscenti strutture, non da meno  un pollaio, dove le pecore belano  assieme alle galline , sotto vecchi assi di legno, in un cortile sterrato.

Sarà il canto continuo del gallo che mi accompagnerà  quotidianamente, nelle ore che alternerò fra lì e altri presidi ospedalieri, mentre mi troverò ad aiutare  tante donne palestinesi a diventare  madri.

Sentirsi infermieri in un tale contesto è pressochè riduttivo: mi accorgo  infatti che, data la situazione di degrado del paese (vuoi per motivi politici, vuoi per motivi  di guerra perenne), ed all’alba di un giorno  d’inverno, dopo un massiccio attacco aereo, marittimo e terrestre, durato 22 giorni e 22 notti, chiamata  Operazione “Piombo Fuso”, noi internazionali  siamo  accolti  ovunque con entusiasmo e gioia, quale simbolo di una speranza di vita  di un popolo oppresso.

Se poi si accorgono che siamo giunti fin lì, non solo per documentare una tragedia umanitaria, ma per entrare anche nelle loro case e in ciò che resta degli ospedali, per prendersi cura dei loro feriti, allora l’accoglienza  di tutti, con centinaia di bambini urlanti e sorridenti  che ci sommergono,  si trasforma in una generale euforia , che mi ha portata a pensare: ….eppure sono “ solo “ un’infermiera!

Ma per questi poveretti  è come se vedessero in questa figura un’ancora di salvezza,  per l’immenso dolore che li sovrasta.

E così, quei piccolini che vedono la luce accompagnati  dalle mie mani, su di un semplice e spoglio ripiano, privo anche di lenzuola, in quelle due stanzine che si affacciano sul pollaio, il cui primo vagito si mischia  al canto del gallo, mi riflettono l’immagine di un mondo passato, un mondo in cui il tempo si è fermato, quando ancora  alle infermiere non era stato insegnato di “  lavarsi sempre le mani”  o “ usare i guanti” , per ogni pratica di contatto con liquidi organici; dove le donne, in procinto di  diventare madri, sollevano  il lungo vestito nero, quanto basta  per dare spazio al bambino nell’uscire, rimanendo infagottate nei loro stracci  casalinghi , e riabassando le vesti , una volta espletato il parto.

Altro che “camicia da notte”, altro che “contatto amorevole sul seno materno”, altro che attesa nel taglio del cordone ombelicale, per favorire il fluido magico che s’instaura col  proprio bambino, nei primi attimi di vita, e prolungare  così il contatto col ventre materno. Niente di tutto questo. E come se non bastasse, nemmeno la possibilità  di ripulirsi dei liquidi del parto, che vengono  piacevolmente assorbiti  dalle lunghe tuniche palestinesi , e con cui se ne vanno tranquillamente  via, dopo pochi minuti, col loro fagottino fra le braccia.

Le tre infermierine velate, Imaan, Sabreen e Amira, si dimostrano molto incuriosite dai miei gesti igienici, perlomeno tentativi di pulizia, tant’è che mi sorridono ma contemporaneamente  mi fanno segno di scorrere: lì, “usa” così, senza tanti “preamboli”. Non solo, ma mi abituerò anche a vederle “sparire” ogni tanto, almeno 5 volte al giorno, quando si alzerà nel cielo il lamento del Muezzin, e loro, alternandosi, s’inginocchieranno su di un polveroso e consunto tappeto, in un angolino dietro una porta,  per pregare.

Eppure ho imparato  io, qualcosa: la naturalezza primitiva, con cui si viene alla vita, al di là di ogni  progresso professionale, di ogni  clausola igienica e preventiva, che fanno nella nostra professione  la colonna portante dell’assistenza infermieristica.

Ho imparato a trascurare tante manovre di approccio e di contatto, sia con la partoriente che col neonato: la madre che non si spoglia e che non viene pulita; il piccolo che, una volta appoggiato sul piccolo ripiano, sotto quella misera lampada che emana calore (a ricordarmi le lampade usate da mia madre, durante la  mia infanzia, nelle gabbie del mio vecchio pollaio, in campagna, sui nidi di uova, onde riscaldarle e fare nascere i pulcini, in mancanza della chioccia) spandendosi tutt’intorno, anche su chi è lì vicino, in pochi minuti il  bebè viene avvolto da più coperte di grossa lana colorata, senza né essere lavato, né tantomeno il cordone ombelicale  isolato e disinfettato.

Dopodichè si forma un “fagottino” (con un metodo insegnatomi dalle donne palestinesi), in cui le braccine dei neonati  vengono alternativamente allungate  lungo i fianchi e fissate, come un salamino.

E poi di corsa, fra le braccia della mamma….e via.

Avanti un’altra, c’è la coda , fuori,  neanche fosse un banale ambulatorio di visite.

E’ impressionante il numero di parti, solo ad Al  Alawda si arriva a circa 15 al giorno, circa 500 al mese.

Ed è “solo” una palazzina, un “francobollo“ d’ospedale.

A pochi metri dai lettini di parto (chiamare Sala Parto quelle due stanzine, è complimento), si aprono le porte (a pensarci bene non c’erano porte) di piccole camerette fatiscenti, con due-tre letti ravvicinati, sempre separati da grandi e polverosi tendaggi (per garantire la privacy), non solo perchè uomini e donne sono assemblati, ma la religione stessa, a prescindere dai due sessi, impone alle donne assoluta riservatezza.

Tant’è che, nei piccoli ritrovi, dove si può consumare un pasto a base di “bite” (piadine rafferme riscaldate) e polpette di verdure, o chissà mai cosa c’è dentro, e creme di ceci, diversi tavoli sono circondati  da tendaggi polverosi, entro i quali famigliole intere  con presenze femminili, delimitano i loro confini, isolandosi dagli astanti.

 

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