Attraverso un’intervista al professor Adriano Chiò, direttore del Centro regionale per la Sla dell’ospedale Molinette di Torino, Osservatorio Malattie Rare prova a fare chiarezza sul farmaco che alcune testate hanno frettolosamente definito “in grado di curare la malattia”.
Sono stati recentemente pubblicati su una delle più accreditate riviste specializzate in campo medico i risultati di un trial clinico di fase III condotto su pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica (Sla), trattati con un nuovo farmaco sperimentale. E nel giro di poche ore svariate testate giornalistiche hanno titolato a caratteri cubitali la scoperta di un farmaco in grado di curare la Sla.
Ma è davvero così? E se, come avrete capito, non è questa la realtà, qual è il motivo per cui questa sperimentazione ha riscosso tanto entusiasmo? Indubbiamente lo studio in questione rappresenta un deciso passo avanti nel trattamento della Sla, ma al cospetto di una malattia così complessa serve sempre una rispettosa prudenza.
Allo scopo di comprendere meglio il significato della ricerca pubblicata sulle pagine del New England Journal of Medicine, Osservatorio Malattie Rare ha chiesto la collaborazione del professor Adriano Chiò, direttore del Centro regionale per la Sla dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino.
“Il nostro centro ha preso attivamente parte allo studio clinico di Fase III VALOR, nel quale sono state valutate l’efficacia e la sicurezza di tofersen – spiega Chiò –. Si tratta di un farmaco della categoria degli oligonucleotidi antisenso (ASO), progettato per ridurre la concentrazione della proteina alterata SOD1, degradando l’RNA messaggero (mRNA) che ne favorisce la sintesi”.
La Sla, conosciuta anche come malattia del motoneurone, ha una patogenesi molto complessa, su cui medici e biologi stanno ancora cercando di fare chiarezza. Tra i geni sicuramente coinvolti nel suo sviluppo figurano C9orf72, FUS, TARDBP e SOD1. Quest’ultimo gene è al centro dell’articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Un punto significativo riguarda dunque i pazienti a cui il farmaco tofersen è destinato. Non si tratta di tutti coloro che sono affetti da Sla, ma solamente di quei casi di malattia associati a una mutazione del gene che codifica la proteina superossido dismutasi di tipo 1 (SOD1), i quali rappresentano circa il 2-3% di tutti i casi di Sla.
“Dopo un anno e mezzo di trattamento con tofersen – aggiunge Chiò –, è stato possibile osservare come i pazienti portatori di questa mutazione presentassero un rallentamento, e in qualche caso un lieve miglioramento, dei sintomi associati alla patologia. Un risultato ancora più significativo se si tiene presente che i pazienti nello studio erano pazienti SOD affetti dalla variante cosiddetta rapida, più aggressiva”.
Tutti gli individui arruolati nello studio clinico, infatti, sono stati suddivisi in due gruppi, in base al tipo di mutazione a danno del gene SOD1 e alla velocità di progressione della malattia. Su un totale di 108 arruolati, tofersen è stato somministrato per via intratecale a 72 pazienti (i restanti 36 hanno ricevuto il placebo e hanno funto da gruppo di controllo) e, dopo 28 settimane, i ricercatori hanno valutato i cambiamenti nella scala di valutazione funzionale rielaborata per la Sla (ALSFRS-R).
I risultati dello studio si sono rivelati decisamente interessanti, specie in termini di riduzione della concentrazione della proteina SOD1 (un chiaro segnale della capacità del farmaco di colpire il suo bersaglio) e dei neurofilamenti (considerati un marcatore di danno assonale e di neurodegenerazione).
“La valutazione dei risultati nei pazienti che hanno assunto il farmaco mette in luce una consistente differenza rispetto a quelli che hanno assunto il placebo – afferma il neurologo piemontese –. Inoltre i dati ottenuti dalla seconda fase di studio, quella in aperto, mostrano come i pazienti trattati si stabilizzino e poi comincino a migliorare. Questi risultati hanno indotto l’azienda a mettere il farmaco già a disposizione di tutti i pazienti con la mutazione in SOD1”.
Tofersen è dunque un farmaco dalle enormi potenzialità, ma il suo utilizzo, almeno per il momento, è riservato solo a una frazione di pazienti e non a tutti i malati. “La ricerca di una cura per la Sla è sempre in corso, ma un tale incoraggiante risultato porta a guardare con ottimismo anche alle altre mutazioni – conclude Chiò –. Diversi sono i filoni di studio, e sarà necessario continuare a impegnarsi nella progettazione di nuovi trial clinici al fine di mettere a punto un trattamento efficace nel bloccare la malattia”.
Redazione Nurse Times
Fonte: OMAR – Osservatorio Malattie Rare
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