Qualcuno lo considera brutale, ma nel Regno Unito è ampiamente diffuso.
Severo, ma giusto. Oppure brutto e cattivo, ma pur sempre giusto. Leggete quanto segue e scegliete voi, alla fine, la definizione che meglio si adatta al più recente e rivoluzionario tra I sistemi di triage: l’active triage o reindirizzamento del paziente.
Ormai ampiamente diffuso nel Regno Unito, dopo gli ottimi risultati delle prime sperimentazioni, questa forma di ulteriore filtro all’ingresso dei dipartimenti di emergenza-urgenza sta lentamente prendendo piede anche in Italia. Come a Mantova, dove la novità è in fase di test da qualche mese, non senza lo stupore e le critiche anche da parte di infermieri con esperienza manageriale, (basta leggere alcuni commenti sui social media).
Se lo volessimo descrivere in termini molto semplici, l’active triage è brutale: prevede, in buona sostanza, il respingimento del paziente giudicato (da un punto di vista clinico) non meritevole di accedere ai servizi di emergenza, in quanto la sua problematica è differibile e può essere seguita da una struttura territoriale. Oppure dallo stesso ospedale, ma previa prenotazione di un appuntamento. Esempi concreti potrebbero essere: un paziente che ha terminato o smarrito il farmaco che sta assumendo; una puntura di insetto, magari presente da un paio di giorni, che presenta un eritema di ridotte dimensioni; un alluce valgo; un abbassamento di vista legato a una pregressa diagnosi di cataratta, in assenza di altra sintomatologia.
Sembrano casi estremi di accessi impropri, eppure sono molto numerosi. Statistiche recenti dell’NHS (non sono disponibili, come spesso accade, quelle italiane) attestano che, nell’anno appena trascorso, circa 7.5 milioni di persone si sono recate in un Accident and Emergency Department in UK, senza averne una effettiva necessità, con un aggravio di risorse e di spesa impressionante per il sistema sanitario britannico, oltre, ovviamente, a un aumento dei tempi di attesa medi per tutti i pazienti.
La valutazione del triagista è ovviamente basata su protocolli per agevolare l’identificazione di possibili fattori di rischio, che potrebbero determinare una successiva compromissione dello stato di salute del paziente. L’elemento che ha suscitato lo scalpore di molti colleghi non è legato, tuttavia, all’ipotesi che il paziente possa non ricevere alcuna cura da parte della struttura ospedaliera, ma al fatto che l’active triage non è di esclusiva competenza infermieristica. Infatti, nei momenti o nelle giornate di maggiore afflusso, come sta avvenendo in questi giorni a causa del picco di patologie respiratorie, il triagista può essere affiancato, nel Regno Unito così come nelle sperimentazioni in atto in Italia, da un medico, benché la presenza di quest’ultimo non sia sempre necessaria.
Il medico, in genere un consultant (viene così definito in UK ogni medico che abbia completato il proprio percorso di specializzazione), opera come senior decision maker, ovvero come decisore finale della presa o NON presa in carico del paziente, che sarà perciò reindirizzato al proprio medico di famiglia, oppure invitato ad acquistare un prodotto da banco in farmacia, oppure ancora, come avviene spesso, messo in condizione di prenotare un appuntamento, in regime di consulenza, presso uno degli ambulatori dell’ospedale.
A ben vedere, perciò, da un punto di vista teorico, l’active triage costituisce una forma ibrida di selezione, basata su una valutazione sommaria del paziente da parte dell’infermiere (il classico triage da bancone). Quest’ultimo è accompagnato però – non sempre, lo ribadiamo – da un medico, che non ripete la valutazione del triagista e dunque non attribuisce un codice di priorità (compito universalmente di esclusiva pertinenza infermieristica, come enunciato anche dalla normativa italiana), ma si assume la responsabilità della decisione di proseguire o interrompere sul nascere il percorso di cura del paziente in ambito ospedaliero, fornendo, al tempo stesso, suggerimenti sulle altre strade da percorrere.
Ci si potrebbe domandare, a questo punto, e in riferimento alla realtà italiana (trattandosi di accessi impropri legati spesso a problematiche minori), se non sia invece più opportuno insistere nell’attribuire maggiore autonomia agli infermieri, attraverso una diffusa implementazione del see and treat dei codici bianchi, piuttosto che operare un delicato respingimento del paziente “alla porta”. La risposta è, a mio parere, parzialmente affermativa, ma solo se si tengono in considerazione le storiche, cristallizzate, incolmabili lacune del nostro sistema sanitario. L’active triage, in Gran Bretagna, viene infatti posto in essere anche a fronte di problematiche che richiedono necessariamente una consulenza medica, ma sono differibili, come la cataratta dell’esempio precedente.
Come recita l’antico adagio, tuttavia, qui casca l’asino: un paziente che vede rinviato il proprio trattamento in regime di urgenza sarà posto in condizione di prenotare un appuntamento in un ambulatorio dello stesso ospedale, ma a distanza di pochi giorni. Le consulenze attivate con questa modalità, inoltre, sono sempre gratuite, a meno che il paziente non richieda una visita a pagamento con uno specialista di notoria fama. I tempi di attesa del nostro sistema sanitario, invece, sono estremamente più lunghi, a meno che non si opti per una consulenza in regime di intramoenia, che però risulterà a pagamento.
Ecco, quindi, che il reindirizzamento del paziente può davvero funzionare solo laddove sia efficiente la macchina organizzativa dell’ospedale e del sistema sanitario nel suo complesso. In tal caso, si riuscirebbe ad allentare la pressione sulle strutture di emergenza-ugenza, consentendo al personale infermieristico e medico di migliorare sensibilmente gli esiti delle proprie cure. Basti pensare che, secondo statistiche ufficiali NHS sovrapponibili alla realtà italiana, il 13 percento dei pazienti che afferiscono a un pronto soccorso è dimesso senza ricevere alcun trattamento e potrebbe, pertanto, essere interessato dalla procedura di active triage.
Luigi D’Onofrio
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