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Servizi ospedalieri: turni possibili e impossibili

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Servizi ospedalieri: turni possibili e impossibili
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Tutti i dati emersi dagli studi in materia di lavoro domenicale, serale e notturno.

I turni riguardano quasi i 3/4 degli infermieri dei servizi ospedalieri e quasi il 60% di quelli degli altri comparti della sanità-assistenza. Gli infermieri (insieme ai medici ospedalieri) hanno le quote più elevate di lavoro a turni in un settore in cui il fenomeno è molto più elevato rispetto a quanto si verifica nelle altre professioni del lavoro dipendente, nelle quali la quota di lavoro a turni è pari al 18%.

Tra gli infermieri il lavoro di domenica è quasi la norma e tocca il 68,3% nei servizi ospedalieri (in linea generale il coinvolgimento degli infermieri degli altri comparti in orari disagiati è solo leggermente inferiore). Tra gli infermieri dei servizi ospedalieri, ben il 57,8% afferma di aver lavorato di notte nelle ultime 4 settimane e il 44,4% per 2 o più volte ogni settimana. Ma c’è di più: l’incidenza del lavoro a turni è aumentata leggermente negli ultimi 5 anni nel totale delle professioni, ma in modo netto nelle professioni sanitarie mediche e infermieristiche, nelle quali era già molto elevata.

L’incidenza è aumentata di circa 4 punti percentuali nelle modalità più disagiate: il lavoro serale e notturno. Colpa delle carenze di organico e dell’impossibilità di utilizzare un numero di personale sufficiente per una diversa a turnazione, con conseguenze negative sia sui professionisti che sugli assistiti. I dati fanno parte di uno studio condotto sui risultati della Rilevazione continua sulle forze di lavoro dell’Istat, che analizza in una intera sezione gli aspetti del “Lavoro in orari disagiati o a turni”.

Dal punto di vista dell’orario di lavoro, gli infermieri mediamente lavorano 36,8 ore settimanali nei servizi ospedalieri e 37,2 ore negli altri comparti della sanità, rispetto alle 37,8 ore della media delle altre professioni. Disaggregando i dati per sesso, emerge però che tra gli infermieri non c’è differenza nelle ore lavorate tra uomini e donne, che nelle altre professioni è invece di 3 ore a favore degli uomini. Quasi nessuna differenza di orario, dunque, tra infermiere e donne delle altre professioni, mentre la differenza totale è quasi interamente dovuta al minor numero di ore lavorate dagli infermieri maschi.

Ma il vero problema sono i turni, cioè quando e in che condizioni queste ore sono lavorate. L’analisi condotta per il Centro studi Fnopi conferma e quantifica quanto spesso dichiarato: in una situazione di aumento della domanda sanitaria, ma di stasi dell’occupazione, il maggior ricorso alle turnazioni rimane a quanto pare l’unica strada per assicurare il funzionamento delle organizzazioni. L’incremento sia dell’intensità, sia dell’estensione dei turni di lavoro comporta maggiori fatica e stress, soprattutto per quanto riguarda il lavoro serale e notturno.

Possiamo considerare l’incremento del lavoro a turni anche un possibile indicatore di disfunzione organizzativa? Dal nostro punto di vista è interessante verificare le differenze di diffusione del lavoro a turni nei diversi contesti territoriali, cioè tra le tre grandi ripartizioni del Nord, del Centro e del Mezzogiorno, escludendo per ragioni di significatività infermieri e medici dei comparti non ospedalieri. In sintesi: il maggior ricorso al lavoro serale e notturno si verifica nel Mezzogiorno (dove quasi tutte le regioni sono in piano di rientro e quindi hanno il blocco totale del turnover, senza ricambio per gli organici). In particolare, in questa ripartizione lavora di notte almeno una volta a settimana il 63,6% degli infermieri contro il 54,8% del Nord. Il Centro si trova in una posizione intermedia.

Dal punto di vista di età e sesso, i giovani più degli anziani e gli uomini più delle donne sono coinvolti nel lavoro domenicale, serale e notturno. Abbastanza logico, considerando che chi ha più di 45 anni ha già alle spalle parecchi anni di lavoro notturno e le donne devono sorreggere i maggiori carichi familiari. Ma ciò non significa “esenzione”: non sarebbe possibile, soprattutto nei servizi ospedalieri, nei quali, va sottolineato, lavora comunque di sera il 58% delle infermiere e di notte il 53,5%. E anche il 54,1% degli anziani lavora di sera e il 50,2% di notte.

Il maggior disagio è costituito ovviamente dal lavoro notturno, e va considerato che nelle altre professioni esso coinvolge non più del 10% degli occupati e che nell’80% dei casi si tratta di uomini. A questo proposito, un recente articolo del British Medical Journal rivela che il mondo occidentale vive nel pieno di un’epidemia di insonnia. E questo non fa che aumentare il rischio di depressione, ansia, demenza, ictus, cardiopatie, obesità, cancro, diabete e incidenti stradali.

Ma al di là dei teenager e degli adulti che tirano tardi su internet o davanti a un videogioco, c’è chi al sonno è costretto a rinunciare per contratto: medici e infermieri, appunto. La popolazione infermieristica è costituita in maggioranza di donne, mentre la distribuzione per età si va spostando verso le classi più anziane. Così, in una situazione in cui il lavoro a turni aumenta in modo sostanziale, le categorie sociali che soffrono maggiormente il disagio e dovrebbero essere protette vengono inevitabilmente coinvolte come le altre.

L’incremento del lavoro notturno tra il 2011 ed il 2016, sia in estensione (quota di persone coinvolte) che in intensità (2 o più notti a settimana), coinvolge tutti senza distinzione di età. E la popolazione infermieristica si va spostando verso le età avanzate, quindi il disagio aumenta e colpisce una popolazione meno in grado di sopportarlo.

Dalla conferenza stampa conclusiva del Congresso nazionale Fnopi

 

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