Il nostro collaboratore dal Regno Unito, Luigi D’Onofrio, ci spiega le conseguenze della carenza di personale in molti ospedali.
L’aggravarsi della crisi di personale nel Servizio sanitario pubblico britannico sta costringendo a chiudere un numero crescente di unità ospedaliere che forniscono cure oncologiche e servizi pediatrici, perché mancano medici e infermieri in numero sufficiente a gestirli in sicurezza. In risposta alle lacune, i manager dell’NHS stanno centralizzando sempre più i servizi in pochi ospedali, esponendo i pazienti all’eventualità di dover affrontare lunghi viaggi per ricevere i loro trattamenti.
La tendenza ha spinto il Royal College of Nursing (RCN), il più grande e noto sindacato infermieristico del Regno Unito e del mondo, a lanciare un grido di allarme. Ha affermato infatti Dame Donna Kinnair, amministratore delegato in carica dell’RCN: “Ogni giorno porta esempi freschi e devastanti di pazienti che pagano il prezzo più alto a causa della mancanza di personale. Non ci sono benefici nel gestire il Servizio sanitario nazionale facendo leva su uno staff ridotto all’osso, rifiutando di riconoscere che, alla fine, a rimetterci sono solo i pazienti”.
Continua Kinnair: “Le carenze di personale spingono il personale infermieristico al limite, costringendolo a fronteggiare pressioni intollerabili e carichi di lavoro crescenti. I reparti di tutto il Paese si trovano in una posizione in cui, se anche uno o due infermieri lasciano o vanno in pensione, non esiste un modo immaginabile di operare in sicurezza, e la forza lavoro rimasta viene sradicata per colmare le lacune presenti nei turni di altri reparti”.
Ad esempio, i pazienti affetti da cancro, che prima potevano sottoporsi a un intervento chirurgico all’ospedale Queen Elizabeth Hospital (QEH) a King’s Lynn, nel Norfolk, potrebbero ora affrontare 80 miglia di viaggio, tra andata e ritorno, dopo che il consiglio di amministrazione dell’ospedale ha deciso di valutare la possibilità di chiudere un reparto e spostare la Chirurgia oncologica a Norwich, avendo fallito nell’attirare un numero sufficiente di infermieri. Il piano ha scatenato immediate proteste.
In una nota interna del QEH trapelata al quotidiano Eastern Daily Press, lo staff anziano della struttura ha affermato: “Ci dobbiamo attualmente confrontare con una situazione in cui, nonostante la decisione presa a settembre dal consiglio di chiudere in modo flessibile 12 ambulatori medici e 12 letti di Chirurgia programmata, non prevediamo di avere la capacità di continuare con il nostro programma di chirurgia elettiva durante tutto il periodo invernale. Inclusi i nostri interventi di chirurgia oncologica. Questa situazione è in gran parte dovuta al fatto che il numero di infermieri che siamo stati in grado di assumere è stato inferiore al previsto. Per motivi di qualità e sicurezza delle cure, il team esecutivo non vuole prendere decisioni che riducano i livelli di personale a un livello in cui venga inserito in organico un numero di infermieri interinali (agency nurses, nda) in misura maggiore di quanto sia assolutamente necessario“.
Anche l’ospedale di New Cross, a Wolverhampton, nella regione delle Midlands, si sta preparando a ricevere pazienti extra, non appena il pronto soccorso (A&E) del Princess Royal Hospital di Telford inizierà la chiusura notturna a dicembre. La mossa è stata motivata dall’incapacità del Trust che gestisce l’ospedale di Telford di assumere abbastanza medici e infermieri, in numero tale da garantire adeguati livelli di sicurezza.
Il dottor Rob Harwood, presidente del comitato consultivo della British Medical Association (BMA), associazione di rappresentanza dei medici britannici, ha dichiarato: “Il servizio sanitario nazionale è già cronicamente a corto di personale, e questo ha inevitabilmente un impatto sugli ospedali e sulla loro capacità di presidiare adeguatamente i dipartimenti e i servizi. Se un ospedale non può riempire i turni perché non ha personale, i servizi rischiano di essere compromessi e la cura del paziente ne risentirà. I pazienti si aspettano di poter essere curati in un ospedale locale, non di dover percorrere molte miglia in quello che potrebbe essere già un periodo stressante per loro. Ma questo potrebbe non essere sempre possibile, se gli ospedali hanno troppo poco personale”.
La BMA ha avvertito che la Brexit farà solo peggiorare la situazione organica dell’NHS, se un numero minore di medici provenienti dai paesi dell’Unione deciderà di venire a lavorare in Gran Bretagna. Nel Dorset, il Trust locale sta gradualmente eliminando un intero reparto da 16 letti nell’ospedale di comunità di Wareham, a causa della mancanza di infermieri. “È stato fatto di tutto per gestire il reparto in sicurezza ma, sfortunatamente, ciò non è stato possibile”, ha affermato Ron Shields, amministratore delegato. Nessuna delle infermiere coinvolte nella chiusura sarà licenziata, tuttavia, poiché il Trust ha molti altri posti vacanti, in cui le professioniste saranno reimpiegate.
Anche all’ospedale della Contea di Durham e Darlington, i manager prevedono di ridistribuire il personale per coprire i posti vacanti in altri ospedali gestiti dal Trust. In Scozia quasi mille bambini sono stati trasferiti al Royal Hospital for Sick Children di Edimburgo dall’ospedale St. John a Livingston, nell’ovest del Lothian, dal momento che il reparto di degenza dei bambini è stato chiuso nel luglio 2017, a causa di problemi di personale. Quattro su cinque minori di 18 anni sono stati ricoverati nell’ospedale della capitale scozzese.
Jeane Freeman, ministro della Salute scozzese, si è impegnata a riaprire il reparto. I critici sostengono che la situazione, “assolutamente inaccettabile”, costringa le famiglie del Lothian occidentale a compiere viaggi di andata e ritorno di 60 miglia per visitare i loro bambini.
All’inizio di questo mese, il giornale inglese The Guardian ha infine rivelato che i malati di cancro non sarebbero più stati in grado di sottoporsi a chemioterapia all’ospedale King George di Ilford, nell’Essex, per carenza di infermiere specializzate in Oncologia.
Un portavoce del dipartimento della Salute e dell’assistenza sociale (il ministero inglese della Salute) ha tuttavia dichiarato, nel tentativo di smorzare le polemiche: “Dal 2010 ci sono 11.900 infermieri in più e ci impegniamo a garantire che il nostro personale ottenga il supporto necessario per fornire un’assistenza eccellente e sicura ai pazienti. Le modifiche ai servizi locali dell’NHS sono concordate a livello locale e, in ogni caso, la priorità è garantire che i pazienti ricevano le migliori cure possibili. Per garantire che il personale giusto sia nei posti giusti, la pianificazione della forza lavoro sarà al centro di piani a lungo termine, supportati da 20,5 miliardi di sterline l’anno di investimenti, stanziati per sostenere lo sforzo di espandere la forza lavoro medica, infermieristica e ostetrica”.
Non tutto il male viene tuttavia per nuocere. La centralizzazione dei servizi più importanti, ai fini delle economie di scala regionali, non ha solo determinato la chiusura di strutture periferiche, ma anche il downgrading di altre, cioè il loro mantenimento in vita, ma a prezzo di una riduzione della loro complessità. Si tratta di un fenomeno molto più antico di quanto si pensi: basti pensare che, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, a Londra, esistevano circa 500 piccoli ospedali, mentre oggi sono circa una novantina.
Il downgrading interessa spesso i servizi di emergenza-urgenza, i quali sono spesso riconvertiti in Urgent Care Center (specializzati nel trattamento di patologie e traumi minori) o in Rapid Access Clinic. Quest’ultimo, in particolare, costituisce un modello assistenziale di recente introduzione nel sistema sanitario inglese. Consiste in un ambulatorio nel quale, mentre da un lato viene bloccato l’accesso diretto ai pazienti (walk-ins) e si prevede la visita del paziente solo dietro richiesta di consulenza di un altro professionista e relativa fissazione di un appuntamento, dall’altro consente, per le effettive urgenze, l’esecuzione di prestazioni in tempi rapidissimi, anche una-due ore.
Perché un servizio del genere possa essere efficace ed efficiente è indispensabile che una Rapid Access Clinic intraospedaliera rappresenti un hub, ovvero un riferimento e un catalizzatore delle esigenze di salute di una comunità, e che vengano sviluppati con le autorità locali percorsi concordati per l’invio e la valutazione delle richieste di consulenza, preferibilmente basati su tecnologie digitali (e-mail o software dedicati).
In ambito oftalmologico, ad esempio, gli opticians inglesi, quelli che paragoneremmo ai negozi di ottica italiani, vedono spesso la presenza in sede di optometristi, in grado di eseguire valutazioni anamnestiche del paziente, esame della camera anteriore dell’occhio, dilatazione della pupilla, fondoscopia e perfino, in alcuni casi, scansione OCT della retina. In buona sostanza, professionisti in grado di eseguire una prima “scrematura” dei pazienti, riportando ad altri professionisti (infermiere triagista e medico) i casi meritevoli di una seconda opinione e approfondimento diagnostico.
È palese, pertanto, che un servizio di Rapid Access, in un contesto specialistico, funzionerà solo qualora vi sia la potenzialità di “esternalizzare” in una sede extraospedaliera il primo contatto tra il paziente e un professionista sanitario dedicato (che potrebbe essere un optometrista, ma anche un infermiere). Un’eventualità che in Italia, ad oggi, in alcune branche specialistiche come appunto l’oftalmologia, pare essere ben lontana dal venire alla luce.
Luigi D’Onofrio
Italian Nurses Society
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