”Ultime due settimane un po’ diverse per me.
Il 22 di ottobre, dopo aver sottovalutato qualche vago malessere e brividi nei giorni precedenti, la febbre si è improvvisamente innalzata in tutta la sua gloria fino al mitico picco del 39,9.
Un record personale.
Questo dopo due giorni di combattimento a colpi di Tachipirina, e consigli vari di attendere e osservarne gli effetti, prima di volerlo chiamare con quello che era poi il suo vero nome.
Alle tre di notte mi presento al Pronto Soccorso del San Camillo di Roma.
Mi consigliano di tornare a casa, visto che in quel momento la febbre era scesa.
Non sembra lui, il virus. Inutile esporsi ad un possibile contagio lì dentro.
Figo e confortante.
Ma appena rientrati a casa, si riparte con la temperatura.
E un mal di testa feroce ed indomabile.
No dispnea, no mancanza di gusto, no senso di oppressione e tossetta giusto accennata.
Torno al Pronto Soccorso Sabato 24 e questa volta mi tirano dentro e mi buttano subito nel girone.
Percorso “sporco” (COVID) o percorso “pulito”?
La risposta arriva nel giro di 6 ore di attesa estenuante, due tamponi (negativo – positivo), TAC e morfina per la testa.
“Percorso sporco mio caro.”
Polmonite e COVID: positivo ad entrambi.
In quelle ore, sdraiato su una lettiga, ho potuto osservare tutto ciò che accadeva intorno a me.
Situazione da calamità, una piccola guerra.
Gente che continua ad arrivare. Tutte le condizioni, tutte le età. Tutti i caratteri.
Urla, lamenti, imprecazioni, vene ed arterie che non si prendono, piccole incisioni di emergenza da svegli, intubazioni.
Le intubazioni non sono una banalità: fanno male e sono difficili da fare.
Si urla di dolore. A volte non si riesce.
Mi guardo intorno e vedo tutti questi infermieri, questi ragazzi e ragazze vestiti di azzurro.
Alcuni protetti bene, altri meno.
Corrono sicuri e concitati per dare assistenza a tutti come meglio possono.
Accidenti, non si fermano un secondo. Ma come fanno?
Ricevono ringraziamenti ed insulti a seconda di chi commenta, e mantengono sorriso e sangue freddo.
Concentrati su ogni piccola operazione.
Hanno studiato (all’università) per questo e sono dei professionisti, bravi.
Gli infermieri. Dei giganti.
Mi raccontano di turni da 12-13 ore di seguito, passate così.
Senza respirare, accudendo e salvando vite.
Una dottoressa di trincea si avvicina, trova il tempo di spiegarmi la mia situazione mentre sono ancora lì sulla mia lettiga nel corridoio di smistamento.
Mirilla si fruga in una tasca del camice e mi regala la sua mascherina FP2 di scorta, l’ultima.
“Questa è meglio della chirurgica.” mi dice. “Usala.”
Riesco solo a ringraziarla.
Stringo gli occhi per quella carezza fatta ad uno sconosciuto.
E’ caos, ma loro sanno cosa devono fare e non perdono la calma.
I primi 4 giorni passano da quelle parti, in una saletta del Pronto Soccorso.
Niente posto letto al reparto speciale che è stato allestito per questo maledetto virus.
Troppi casi insieme.
Ok, pazienza. Aspettiamo. Ci pensano loro.
Qui in trincea uomini e donne insieme.
Cinque lettighe in una stanzetta, manca la porta sul corridoio, bagno disagiato.
Non è una stanza di degenza. Era una sala d’attesa, in realtà.
E’ rimediata per fare fronte all’impatto dei ricoveri.
Niente silenzio, privacy. Mai. Né giorno né notte.
Le persone hanno bisogno sempre, a tutte le ore, per qualunque cosa.
Chiaramente una situazione di emergenza.
Siamo al fronte.
Questo sembra un girone dantesco.
Non è bello, mette timore.
Devi tenerti lucido, sereno, tocca a te essere un po’ forte, collaborare.
Ci vuole calma.
Solo il personale che ti vola intorno riesce a farti sentire che va tutto bene.
Ti stanno già curando e questo è l’importante.
Il resto è contorno, per ora.
La terapia me la iniziano subito.
E’ quella che hanno imparato in questi otto mesi dall’inizio dell’emergenza.
Non cura il virus, ma lo tiene a bada mentre cura e protegge polmoni, cuore, cervello.
Bombe di antibiotici, eparina, cortisone.
Roba seria.
La febbre scende velocemente.
I parametri convergono verso la normalità.
Finalmente al quarto giorno di PS, nel cuore della notte mi chiamano per trasferirmi al reparto.
C’è un posto libero. Non mi sembra vero. Una piccola gioia.
I portantini che mi trasferiscono sono troppo simpatici, sdrammatizzano.
Mi tranquillizzano.
Trasportano covidati tutto il giorno, loro. Routine.
Breve tragitto e arrivo al reparto destinato a quelli come me, positivi COVID.
E mi mettono nella zona “livello 1”, i meno gravi.
Quelli che respirano da soli.
I livelli 2 e 3 sono via via più complicati.
Sembra un sogno, considerato dove ero dieci minuti fa.
Stanza da due.
Pulito, ordinato, nuovo.
Un letto vero, silenzio rassicurante.
Ok, è sempre un ospedale, ma mi sembra troppo bello.
Il reparto funziona.
Lo standard per un ospedale pubblico è alto.
Questa è la mia esperienza con loro.
I giorni successivi corrono lenti, uguali.
La terapia si ripete col suo ritmo, ogni nuovo giorno.
Le condizioni ed i parametri migliorano sempre.
Qui infermieri e medici hanno il modo di organizzarsi.
Seguono un programma, siamo qualche metro indietro rispetto alla trincea del primo fronte.
Corrono comunque a destra e a sinistra, ma con meno intercettazioni ed emergenze rispetto a giù.
Ti parlano, ti raccontano di te e ti raccontano di sé.
Sono gli stessi che prestano servizio al Pronto Soccorso.
Chissà, forse il turno al reparto lo vivono come un momento di recupero delle energie, rispetto a quella bolgia che c’è lì sotto. Prima di tornarci di nuovo, tra poco.
Gli offri rispetto, normale educazione, una parola o un pensiero, un sorriso. Un grazie.
In quel momento non hai altro da dare.
E loro ti ricambiano dieci volte.
Mai uno scatto di nervosismo con chi è meno gestibile, mai un moto di insofferenza né una parola fuori posto.
C’è chi li chiama dieci volte, e loro dieci volte vanno.
Sono lì per una missione immagino, non proprio per quei milleduecento euro che forse portano a casa a fine mese per servire all’inferno.
Te lo spiegano.
La loro soddisfazione grande è questa.
Vogliono sapere che quello che fanno (ed è tanto) serve e viene capito.
Vorrei che potessero avere la voce per raccontare ai nostri governanti e deputati una giornata della loro vita.
E sperare di risvegliare qualche coscienza sopita e distratta dal tran-tran della politica.
Li vorrei ringraziare e nominare tutti, ad uno ad uno.
Ricordo alcuni dei nomi: Maria, Simone, Andrea, tanti altri che non ho colto…
Ma devo una menzione speciale a quelli che mi sono rimasti impressi per la capacità di portare un sorriso in più a chi spende del tempo in quel luogo.
Lui si chiama Ciro, Torrese di Torre Annunziata, e mi ha fatto scoppiare a ridere quando si è presentato in stanza con la sua tuta stagna e la scritta “Ciro qualità 10” in bella vista.
Troppo forte.
Simpatico, preparato e premuroso con tutti.
Costantemente allegro, battuta pronta e ti chiama per nome.
Lei invece è Angela, ma per gli amici è Angie.
E così le fa piacere di sentirsi chiamare dagli amici, a Roma.
Una forza della natura. Mai impreparata, veloce.
E sempre un sorriso dolce che intuisci dietro quella mascherina.
Lo vedi dagli occhi. Quelli li vedi. Sono allegri e buoni.
Tutti e due giovani e agguerriti!
Sono uscito da quel reparto ieri sera, guarito e negativo dopo undici giorni di cammino nel mio tunnel.
Abbiamo sorriso una ultima volta insieme con gli infermieri e i medici di turno in quel momento.
Abbiamo voluto scattare qualche foto per fermare l’attimo e ci siamo salutati con affetto spontaneo.
Il breve percorso che mi ha portato attraverso i corridoi verso l’uscita del padiglione COVID lo ho fatto tutto d’un fiato.
Al portone, prima di mettere piede fuori, un attimo di esitazione e un po’ di batticuore per l’aria fresca della sera.
Poi respiro profondo, mascherina stretta in viso e via.
Libero.
Guardo indietro e rileggo questa esperienza.
Il COVID fa schifo.
All’ospedale non ci vuole andare nessuno.
E con il COVID non esistono visite di parenti e amici in ospedale.
Ma per fortuna ci sono tante persone, dei bravi professionisti che il momento te lo fanno passare con grande dignità, mettendoci tutta la loro competenza.
Se gli regali un sorriso te ne restituiscono due.
E se proprio deve essere ospedale, va bene che sia così.
Unico rammarico: non ho potuto vedere il viso di nessuno dei cento angeli che mi hanno rimesso in sesto e consentito di tornare a casa sano e salvo.
Erano nascosti dalla maledetta mascherina.
Grazie ragazzi!!”
M. S.
covid #coronavirus #sancamillo
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