Rilanciamo le riflessioni di Matteo Gamba, infermiere di Chirurgia vascolare all’ospedale Cattinara (Trieste), pubblicate su L’Infermiere, organo ufficiale Fnopi.
Ci troviamo, in questo periodo in cui prosegue la lotta imperterrita contro il Covid- 19, a vivere un presente proiettato in un futuro sempre più incerto, con le disposizioni del Governo che cambiano da un giorno all’altro, i casi che riaumentano in tutta Italia a velocità supersonica. Tutti sperano non ci sia nuovamente un altro lockdown. Altrimenti, stavolta metterebbe fine alla nostra economia e scatenerebbe una rivolta sociale incontenibile.
Ecco che, nel bel mezzo di questa situazione, mi viene chiesto di prestare servizio per una settimana presso il reparto Pneumo-Covid dell’ospedale di Cattinara, a Trieste. All’inizio la paura di non essere all’ altezza di affrontare questa esperienza e anche di contagiarmi ed essere un pericolo per gli altri hanno avuto il sopravvento. Ma dall’altra parte ha prevalso una forte determinazione, che bruciava come un fuoco impetuoso dentro di me e non mi ha permesso di tirarmi indietro. Anche se per pochi giorni è pur sempre utile offrire il proprio contributo in questa guerra virale, e anche apprendere conoscenze nuove in questa professione è sempre prezioso.
Il primo giorno in reparto, dopo aver effettuato la vestizione con tutti i Dpi nella zona dedicata, entro all’interno e vengo travolto da un profondo oceano di emozioni. Vedo persone dai 40 agli 80 anni, più uomini che donne, e in sovrappeso. Certi sono vigili e collaboranti, altri sono un po’ confusi e scarsamente complianti, ma tutti collegati ai monitor e tutti collegati ai ventilatori con caschi, cannule nasali, maschere facciali di tutti i tipi. Per certi aspetti è stato un po’ ritornare al passato, quando lavoravo in medicina d’urgenza e assistevo pazienti con problematiche simili. Con la differenza che ora, oltre a loro, c’è anche quel mostro pronto a colpire in ogni istante chi sta bene, se non si è attenti.
In quel momento la paura è svanita, il dolore degli altri si è unito al mio e il mio cuore batteva insieme a quello di altri “guerrieri” dentro le tute come me, tutti uniti nella lotta contro questo nemico invisibile, con l’obiettivo di aiutare le persone presenti in quel reparto a respirare autonomamente. Queste persone, a causa della polmonite interstiziale determinata dal virus che ci sta perseguitando da mesi, hanno tanta difficoltà a respirare. Come diceva metaforicamente un mio collega: “I polmoni sembrano un cielo stellato”. Pertanto necessitano della ventilazione meccanica non invasiva. Mi ha colpito molto il continuo alternare dei diversi presidi di ventilazione al paziente in base al variare delle condizioni cliniche unito anche alla continua mobilizzazione dalla posizione supina a prona e viceversa per favorire la respirazione.
Essere tutto coperto, non poter avere il nasone rosso a disposizione, avere il sorriso coperto dalla mascherina non mi ha impedito di interagire empaticamente con il malato: gli occhi si sostituiscono al sorriso e la voce ti permette di esprimerti in maniera diversa a seconda delle situazioni che ti trovi di fronte ogni giorno. È sempre stato gratificante sentirli chiamarti per nome perché lo leggono scritto sulla tua tuta, e che ti ringraziano perché gli porti le medicine, li aiuti a mobilizzarsi o semplicemente perché li ascolti e interagisci con loro. Forse anche per la patologia questi pazienti ti dicono spesso che hanno tanta paura di morire. Qualcuno riferisce di avere un continuo bruciore nei polmoni, come se avessero ingerito una sostanza acida. Solo che il bruciore, invece di essere nella pancia, è nei polmoni. Altri, invece, si esprimono poco perché non riescono a fare un respiro a fondo senza tossire.
Devono essere proprio brutte sensazioni: la fame d’aria e la difficoltà respiratoria, ritrovarsi da svegli imprigionati in quelle maschere infernali che ti lasciano i segni sul viso, e doverle sopportare anche in pronazione a letto. Infatti comprendo a volte il loro rifiuto a non voler seguire il ciclo di cure. E quando finisco il turno di lavoro esco dal reparto e attraverso la zona di svestizione. Dopo essermi tolto le mie vesti di protezione, sono libero e continuo a respirare ma i pazienti ricoverati in Pneumo-Covid.
Loro continuano a restare chiusi lì da soli, senza vedere i loro cari. Li sentono solo attraverso chiamate al telefono, sempre con quella continua dispnea e angoscia di non farcela. Quindi, quando ti trovi lì come professionista, è importante rassicurarli e stimolarli a essere collaboranti alle terapie con il ventilatore. Per quanto sia fastidiosa come sensazione, bisogna convincerli a sopportare quella maschera sul viso, che in quel momento è l’unica possibilità terapeutica per aiutarli a guarire. Lavorare con tutta quella bardatura addosso per tante ore non mi dava particolarmente fastidio. Come mi dicevano alcuni colleghi che avevano già vissuto questa esperienza, “quando si è lì, dopo un pò non ci fai più caso”. Dopo averlo vissuto, posso confermarlo.
Quando ci si trova di fronte a particolari situazioni della vita viene prima il senso del dovere e poi il proprio benessere. È stato molto positivo il rapporto con i medici, gli infermieri e gli operatori con cui mi sono trovato a lavorare, ognuno proveniente da realtà lavorative diverse. Ma quando eravamo lì era come se ci conoscessimo da sempre e, nonostante l’ambiente rischioso in cui operavamo, si è sempre mantenuto un clima sereno, cordiale e professionale, con una gestione delle attività assistenziali in perfetta autonomia. Mi ha colpito un collega che, come tecnica per difendersi dal calore provocato dall’imponente “corazza antivirus”, ogni tanto si metteva un sacchetto di ghiaccio in testa per rinfrescarsi.
I giorni passavano, con pazienti che andavano e venivano dal reparto. E così l’esperienza di una settimana si è conclusa in un battito di ciglio, e sono rientrato nel mio reparto la Chirurgia vascolare. Posso dire che è stata un’esperienza emozionante e travolgente: ha sicuramente arricchito il mio bagaglio interiore e mi fa essere sempre più convinto che dobbiamo avere ancora tanta accortezza verso di noi e verso gli altri finché questa storia non avrà fine.
È sicuramente un 2020 molto difficile per tutti. Prima o poi finirà, ma questo dipende in parte anche da noi. Indossare la mascherina di protezione, lavarsi le mani, mantenere un distanziamento fisico: tutte queste misure non sono niente rispetto a non respirare bene e ritrovarsi collegati a un ventilatore. Personalmente, ringrazio di aver vissuto questa esperienza: mi ha fatto essere ancora più orgoglioso della professione che svolgo ogni giorno da quasi 15 anni.
Redazione Nurse Times
Fonte: L’Infermiere
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