Introduzione di Marco Parracciani
Di seguito è presentato un sunto del lavoro di laurea dal titolo “Relazione, assistenza e disabilità. Studio sulla qualità di vita, il vissuto emotivo e la soddisfazione personale di familiari, infermieri e operatori socio-sanitari presso una struttura residenziale per disabili”, una ricerca proposta dalla collega Giulia Guerrini, infermiera laureata all’Università degli Studi di Firenze.
Lo studio effettuato consiste appunto in una ricerca qualitativa che prende in considerazione il vissuto emotivo, le esperienze, le soddisfazioni e le riflessioni di infermieri e operatori socio-sanitari che lavorano in una struttura residenziale per persone con disabilità; il tutto è amplificato dal racconto di vita di due genitori, con il figlio residente nella medesima struttura.
L’obiettivo dello studio è stato quello di rendere più visibile, per quanto possibile, la disabilità, che è presentata come una condizione ancora troppo sconosciuta al mondo esterno.
“L’altro”, esterno a questa situazione dalle mille sfaccettature, può imparare a conoscere questo complesso universo attraverso gli occhi e le parole di genitori e professionisti specializzati: infatti solo la forza di chi vive tutti i giorni questa realtà può creare una solida cultura intono alla disabilità.
Trattandosi di una ricerca qualitativa, la raccolta delle informazioni è avvenuta tramite la creazione di focus group per quanto riguarda infermieri e operatori socio-sanitari; per l’esperienza dei genitori è stato utilizzato il metodo dell’intervista semi-strutturata.
In estrema sintesi, le tappe realizzate sono state la realizzazione dei focus group e dell’intervista con parallela audio registrazione (previo consenso), sbobinatura e preparazione del testo scritto, pre-analisi del materiale, organizzazione dei risultati in nuclei tematici e stesura finale; le testimonianze degli infermieri sono riassunte e parzialmente raccolte in questo stralcio.
La tesi della dottoressa Guerrini può essere anche uno spunto di riflessione per quegli infermieri che, lavorando in strutture simili a quella analizzata dalla collega, si trovano a un confronto quotidiano con le tematiche lavorative e di vita qui affrontate: infatti l’individuazione dei bisogni e delle priorità che si è realizzata attraverso i focus group ha fornito un punto di vista importante, quello di infermieri (nel lavoro di tesi completo è trattata anche figura degli operatori socio-sanitari) che svolgono la propria attività professionale a contatto con le persone con disabilità e con le loro famiglie.
All’interno del lavoro che fa da contorno alla ricerca trova spazio la definizione di Processo di Presa in Carico, che si connota come l’insieme delle attenzioni, degli interventi (sanitari, sociali, educativi, di politiche attive del lavoro, del sistema dell’istruzione) e delle condizioni (organizzative e giuridiche) che per l’intero arco della vita della persona garantisca la costante e globale valutazione delle sue abilità, dei suoi bisogni, e individui e predisponga le azioni atte a garantirne la massima partecipazione alla vita sociale, economica e culturale, in relazione allo sviluppo di abilità raggiunte e di abilità potenziali.
Le persone che vivono una condizione di disabilità sono espressione di bisogni complessi, per cui necessitano di un processo di valutazione globale e costante dei diritti della persona e della sua famiglia. Esse devono essere coinvolte come protagoniste, con l’obiettivo dell’inclusione, attraverso la rimozione delle discriminazioni e la promozione di pari opportunità. Attraverso quest’ottica, si sono volute condurre delle riflessioni che potessero porre l’accento su tutti i versanti che costituiscono la condizione di disabilità.
In accordo a questo, viene evidenziata la figura della persona con disabilità, non identificandola come “malato da guarire”, ma come persona che vive una condizione diversa e delicata, con bisogni e diritti caratteristici e specifici. Viene trattata l’importanza che riveste il nucleo familiare in una condizione di disabilità: la famiglia deve quindi essere considerata come protagonista di un processo di adattamento oltre che come “vittima” di una situazione stressante e ciò è fondamentale per immetterla a pieno titolo nel processo terapeutico, per considerare l’aspetto delle risorse attivabili.
L’ambito familiare, per la maggior parte delle persone con disabilità, rappresenta l’ecosistema fondamentale di riferimento, ed in questo senso ogni proposta educativa e riabilitativa deve trovare posto all’interno della famiglia. Il progetto di assistenza coinvolge allora la persona, la famiglia, i servizi e la comunità locale nel suo insieme.
Il lavoro svolto nei focus group prevedeva tre fasi principali:
- I partecipanti sono stati chiamati ad elencare particolari episodi di difficoltà, di passaggio, di crisi in seguito al primo impatto avvenuto con persone che presentano disabilità, ed è quindi stato chiesto a ciascuno di parlare della propria esperienza lavorativa, come si sono avvicinati alla disabilità, da quanto tempo.
- Nella seconda parte a ciascun partecipante è stato chiesto come, a distanza di anni, si presenti il proprio lavoro; se si è evoluto, e in che modo; come hanno risolto le difficoltà iniziali, soprattutto per quanto riguarda l’assistenza; infine quali sono le problematiche attuali e quali gli impatti emotivi che hanno sviluppato in seguito al lavoro quotidiano con le persone disabili.
- Nella terza parte dell’incontro è stato chiesto a ciascun partecipante se è nato o meno il desiderio di cambiare lavoro e perché.
Di seguito sono riportati i risultati risultati emersi dal focus group con gli infermieri:
Nella prima parte dell’incontro è stato chiesto agli infermieri di raccontare la loro esperienza lavorativa, quindi come si sono avvicinati alla disabilità, come è stato l’impatto iniziale, se ci sono state difficoltà, rifiuto o se invece la possibilità di lavorare con queste persone ha generato entusiasmo e un approccio positivo.
IMPATTO INIZIALE:
Dalle testimonianze degli infermieri partecipanti, emergono due visioni opposte riguardo l’impatto iniziale. Da una parte una visione per lo più positiva, poiché alcuni avevano già precedentemente avuto a che fare con l’assistenza a persone con disabilità. In questa concezione, l’unico accento negativo è stato vedere tante persone con disabilità gravi concentrate nella stessa struttura.
“Avevo già visto alcuni pazienti di questo tipo, ma non così gravi, e non tutti insieme. Un conto è vederne uno, in una casa di riposo, in mezzo ad anziani, persone comunque “normali” , un conto è vederne 15 tutti insieme, è un’altra cosa!”
“Impatto negativo non c’è stato, l’unica cosa forse è stato all’inizio vedere tanti ragazzi che avevano queste problematiche tutti insieme, però non mi hanno fatto spavento o che..”
Dall’altra parte una visione, dell’impatto iniziale, totalmente negativa.
“Sono venuta a visitare la struttura prima di iniziare il servizio. Però non entrai dentro.[…] Venni qua e vidi dall’esterno questi ragazzi. […] Avevo un po’ paura, non sapevo come fare, tutti in carrozzina, a terra, gente che doveva alzarli da terra. Mi sono messa a guardare dall’esterno e mi sono domandata “MA DOVE STO QUA?”. E allora all’inizio è stato difficile. Mi ci sono voluti due anni per adattarmi, non l’accettavo devo dire la verità. Prima di tutto la disabilità, non ero stata abituata a trattare con questo tipo di persone, era difficile […]”
“Quando sono entrata io in servizio mi raccontavano “lui ti fa male, quindi stai attenta non ti avvicinare perché sennò ti picchia, l’altro uguale” tendevano a farti terrorismo psicologico[…]Anche per questo all’inizio è stato difficile per me”
Le difficoltà nell’adattarsi, a prescindere dall’impatto iniziale, sono state per lo più le medesime. Poiché sebbene alcuni infermieri fossero già entrati in contatto con la disabilità, nessuno aveva lavorato in una struttura così specifica. Sono emerse dalle testimonianze:
– difficoltà nell’abituarsi alle malformazioni fisiche
“[…]Alcuni erano molto difficili da vedere, anche molto peggio di quelli che ci sono ora. Alcuni per come mangiavano, ad esempio oggi quelli che vediamo mangiare peggio sono 2 o 3, ma niente di paragonabile, rispetto a quello che c’era prima […]”
– difficoltà nel trovare un metodo adatto e professionale nell’assistenza, nel creare un contatto e una rapporto relazionale con questo tipo di persone
“La terapia come si somministra? Allora guardavo gli altri come facevano, chiedevo aiuto ai colleghi, cercavo di capire, sbagliavo. L’ ho data 50 volte prima di trovare un metodo giusto e capire come somministrarla correttamente. Poi come dare da mangiare? Perché all’inizio si somministrava noi anche il vitto. Allora mi dicevo “vabbe ci proverò anche io” e insomma ma se poi “s’affoga?!” […] Io ho osservato tanto i miei colleghi”
– difficoltà nell’organizzazione lavorativa
“[…] Prima si faceva tutto noi! Prima qui l’infermiere faceva tantissime cose, anche quelle che ora fanno altri, si faceva di più ma in maniera meno organizzata, meno strutturata, si faceva tutto noi per quanto si poteva. Ci occupavamo anche di cose di cui oggi si occupa il fisioterapista, ad esempio farli camminare, la postura, i materassini antidecubito, i deambulatori, ce ne occupavamo noi … I magazzinieri eravamo noi, era un lavoro a 360°, disorganizzato[…]”
Come si presenta attualmente il lavoro
Nella seconda parte dell’incontro è stato chiesto agli infermieri di identificare aspetti positivi e negativi del loro lavoro attuale, se con il passare del tempo le difficoltà iniziali hanno trovato una soluzione e quali sono le sensazioni che sono nate, in ciascuno di loro, lavorando con queste persone.
IDEA DI CURA
Dalle parole degli infermieri è possibile entrare in modo più preciso dentro l’idea di cura che sostiene il loro ruolo e orienta le azioni nella quotidianità. Sono parole che concretizzano alcuni dei significati che molti studiosi hanno privilegiato nel tentativo di dare una definizione che aiuti a comprendere cosa si può intendere per cura e lavoro di cura. Un primo significato è riferito al fatto che la cura consiste in molteplici attività finalizzate a sostenere il benessere.
Queste attività vengono agite non per il o sul soggetto assistito, ma con lui, nel suscitare la partecipazione attiva dell’azione di cura, verso un obiettivo di benessere condiviso. Questa centralità della compartecipazione emerge con estrema consapevolezza nelle riflessioni proposte, dove l’idea di cura si lega a un lavoro di vicinanza e comunicazione con la persona, dando importanza alle difficoltà ma soprattutto alle possibilità potenziali.
La comunicazione appare, dalle parole degli infermieri , il principio cardine dell’idea di cura. La comunicazione, per definizione, implica l’invio e la ricezione dei messaggi tra due o più persone, seguiti da un feedback che indica che le informazioni sono state recepite o hanno necessità di ulteriori chiarimenti.
La comunicazione avviene contemporaneamente a livello verbale e non verbale. Nel particolare ambito preso in analisi, la comunicazione con queste persone, per lo più affette da lesioni cerebrali che impediscono l’uso della parola, verte principalmente sull’approccio non verbale.
Quindi attraverso la lettura di tecniche messe in atto dagli assistiti, quali cinesica (linguaggio del corpo), paralinguaggio (emissioni di suoni vocali che non sono in realtà parole), prossemica (uso della distanza interpersonale nella comunicazione), contatto (stimolo tattile prodotto dalla contiguità con un’altra persona o con un oggetto), ogni infermiere ha sviluppato delle modalità di comunicazione che hanno permesso di stabilire una relazione che è andata a favorire poi l’assistenza, la presa in carico e la cura della persona.
“[…] Per me è diventato molto importante riuscire a sviluppare delle modalità di comunicazione. Mi sono accorto che se riesci a trovare, piano piano, una chiave di comunicazione – che ognuno ce n’ha una un po’ diversa – riescono ad accettare meglio anche il lavoro che tu fai con loro. Hai meno difficoltà, riescono ad essere più tranquilli … non dico mica essere contenti, perché se vai a fargli un’iniezione o delle pratiche, (tipo un clisma evacuativo) non è che sono contenti, però forse lo accettano in maniera migliore, perché riconoscono a te quella capacità di voler entrare in comunicazione con loro […]Io uso il mio, che è anche quello un po’ stupido, faccio il buffone! Però a livello comunicativo ho visto che con alcuni di loro paga […]”
“Io ho notato, la voce, il tatto, la musica sicuramente. Parlare tanto alla fine premia […]”
“E’ un lavoro molto delicato, perché devi capirli, e non è facile, perché sono inespressivi apparentemente, poi tu li guardi bene, e allora entri nel loro linguaggio, che sono fatti anche di piccoli segni, di piccole cose […]”
Il confronto riguardo alla comunicazione ha indirizzato gli infermieri, conseguentemente, ad esprimersi a proposito del rapporto con la famiglia. Accogliere e lavorare con una persona con disabilità significa confrontarsi costantemente con la famiglia, svolgendo spesso anche con quest’ultima un’azione importante di rassicurazione, supporto e confronto.
Dalle riflessioni degli infermieri emerge che la famiglia non è mai una variabile neutra e diventa risorsa che supporta il percorso o, spesso, elemento che giocando in difesa non è capace di attivarsi come presenza collaborativa.
“[…] I familiari che seguono veramente questi pazienti sono pochi, credo che siano, veramente senza esagerare, 4 o 5. Alcuni vengono una volta alla settimana, una volta ogni tanto. Il rapporto con i familiari nel complesso non è cattivo, almeno secondo me, però alcuni familiari, per il fatto che non possono venire qui tutti i giorni, che hanno deciso per un motivo o un altro di metterli qui, hanno probabilmente anche dei sensi di colpa e allora alle volte vengono qui e tendono a fare polemica su particolari, per fare sentire la loro presenza, far vedere che loro se ne occupano, per far vedere che loro ci stanno dietro, che non se ne disinteressano. E alle volte vengono a fare polemiche su piccole cosette, però a parte questo il rapporto è buono, non ho mai avuto problemi grossi[…]”.
“Poi una cosa bella sarebbe vedere con gli occhi di un genitore. Entrare nell’ottica del genitore ti fa capire tante cose, tanti disagi emotivi che subiscono queste persone […] loro hanno questo senso di protezione, anzi loro hanno la paura dell’abbandono, cioè di morire prima e lasciare il figlio incustodito.”
“Alcuni hanno conosciuto il figlio in circostanze diverse, è brutto parlare di “circostanze diverse”, però l hanno conosciuto, anche se piccolo, quando aveva per così dire uno sviluppo normale. Però allora si può capire il perché poi i genitori dicono di trattare il figlio in un determinato modo perché “lui capisce”, ma infondo un certo livello di comunicazione con quasi tutti si riesce ad avere se ci si sforza di averlo, basta avere tempo”.
Scarsità di risorse.
Il terzo filone si inserisce nel tema più ampio della necessità di supporti e risorse maggiori rispetto a quanto il dato economico-politico è oggi in grado di garantire. Ci sono varie testimonianze che dichiarano il bisogno e la necessità di maggiori risorse affinché l’assistenza alla persona sia efficace ed efficiente. A partire da risorse, strettamente legate all’assistenza, come carrozzine più idonee, messa in sicurezza dell’ambiente attraverso inserimento di campanelli di emergenza, manutenzione della struttura, fino ad arrivare a programmazione di attività ludico-ricreative come gite,visite ecc … “Quello che si potrebbe migliorare sarebbe sul piano delle attività, ad esempio più gite. Il 10 luglio è stata fatta una gita al mare, ma solo un giorno. Capisco che ci sono costi e tutto però si potesse fare più spesso sarebbe una cosa molto buona. […] Il punto debole della struttura è sempre stato questo, poche attività, ora qualcosa si sta facendo ma sempre poco.” “La maggior parte di questi ragazzi sta in carrozzina, ma non carrozzine a calco ma carrozzine del 15/ ’18, trasformate, revisionate perché non ci stanno i soldi.”
“Non ammetto che non agevolino il lavoro, è da terzo mondo. Vengono fatti diecimila breafing ma il problema sta sempre là, perché non ci sono i mezzi. […] Basterebbe poco anche l’usato”.
Stress.
Tutto quello di cui si è trattato, a partire dall’accumulo di lavoro non prettamente di competenza infermieristica, la mancanza di mezzi e risorse, ma non solo anche la difficoltà di comunicazione con alcuni colleghi, ha manifestato negli infermieri sentimenti di stress. Stress che a causa di mancanza di risorse, che impediscono la possibilità di usufruire al bisogno di un supporto psicologico, spesso e volentieri viene riversato sui colleghi e potrebbe a lungo andare danneggiare l’assistenza alla persona. Anche la mancanza di rapporti fluidi, sereni, non veicolati solo dai computer non fa altro che accrescere questi sentimenti di stress. “Ma come si fa a creare un rapporto? Prima era possibile, adesso si parla solo del minimo indispensabile a livello lavorativo. Comunichiamo per via e-mail. Se devo comunicare una cosa al coordinatore che lavora nella stanza accanto, mi risponde “Scrivimi un’ e-mail”. Dobbiamo mandare un messaggino via what’s app per informare che il giorno seguente accompagneremo un ragazzo a fare una visita. È assurdo! Non c’è più comunicazione, non ci si guarda più negli occhi. Anche il rapporto con l’oss è superficiale, di passaggio, prima invece c’era più tempo e anche più personale.”
“E’ una cosa comune, uno stress comune che ci ha spinto più di una volta a dire “andiamo tutti via!”” “E’ il lavoro burocratico che andrebbe snellito, che provoca lo stress più grande a parer mio. […] L’abbiamo fatto presente e sai cosa c’hanno risposto? “voi ve la prendete troppo a cuore!”. Quando una persona ti da queste risposte, allora non parli più, non dici più niente, perché se chiedi aiuto, per una cosa che comunque non ti compete, che comunque sia fai per il bene dei ragazzi e ricevi queste risposte, allora ti arrendi, e vai avanti”.
Necessità o meno di cambiare lavoro. In conclusione proviamo a chiudere il cerchio delle riflessioni riportando le risposte, maggiormente condivise, all’ultima domanda posta nei focus-group, che richiedeva agli infermieri di esplicitare il bisogno o meno di cambiare lavoro e perché. Emerge dalla maggior parte delle testimonianze l’aspettativa di cambiare, in futuro, ambiente lavorativo, non per l’utenza ma per la curiosità di confrontarsi con altre realtà. D’altra parte però si presenta anche il timore di cambiare, dover riniziare da zero. Nasce l’interrogativo e soprattutto la paura di arrivare un giorno a non essere più di aiuto nell’assistenza a queste persone, per eccessiva stanchezza, stress, routine, per l’incapacità di non riuscire più a dissociare i problemi personali dal lavoro ecc… “Da una parte mi piacerebbe anche andare a lavorare da altre parti, però bisogna vedere, perché secondo dove mi mandano dovrei ricominciare quasi da zero, e non è semplice … Non saprei, da una parte si e da una parte no. Giusto per cambiare, non per il lavoro. Dopo tanti anni si potrebbe anche provare a cambiare […]Comunque non ho problemi a stare qui, mi ci trovo bene”, “Ni, diciamo che alle volte l’esigenza di provare altre cose si fa sentire, non ho lavorato in molte realtà, in due strutture prima di queste e il tirocinio quando facevo scuola. Devo dire che il tirocinio in ospedale a me è piaciuto tanto quindi ritornarci mi piacerebbe, anche se avrei un po’ timore, mi sono troppa abituata a stare qui e dover riniziare tutto da capo mi spaventa. Dovrei rimettermi a studiare, però è una cosa che vorrei fare, per mettermi alla prova, sarebbe stimolante. Però a parte questo sto bene qui, anche se alcune volte penso “non ne posso più me ne voglio andare”a causa magari di polemiche con gli oss che ti stressano e ti portano a pensare “mammamia non ce la fo più!” oppure altri tipi di situazioni che diventano pesanti, come il lavoro stesso, stare sempre davanti a un computer, dover organizzare tutto secondo i tempi i posti. Il lavoro che diventa uguale tutti i giorni, lavoro routinario, fai sempre le stesse cose, e penso “io ho studiato anche altre cose” e mi piacerebbe provarle o studiare ancora, ad esempio fare dei master però poi la vita, le situazioni famigliari, tante cose ti portano a non mettere in atto quelli che sono pensieri. La curiosità però rimane, il voler mettersi alla prova.”
“Non cambierei, perché venendo da altre realtà, questa è quella che ho fatto mia , mi piace. Quindi vengo a lavorare con voglia, anche se so che ci sono vari problemi però penso “vado a lavorare”, non lo vedo come “mamma mia stamattina devo tornare in quel posto” no! Però c’è da dire che stare tanti anni nel solito ambiente non fa bene […]”.
CONCLUSIONI
Dai focus group con gli infermieri e con gli operatori socio-sanitari, è emersa l’importanza delle centralità della persona con disabilità nel suo diritto ad un’esistenza qualificata e dignitosa. Tuttavia, sono presenti ingranaggi difettosi all’interno della struttura analizzata, che a lungo andare, potrebbero danneggiare l’assistenza. Secondo le testimonianze, se fossero presenti un maggiore interesse, una maggiore partecipazione alle problematiche interne (carenza del personale, accumulo di attività, mancanza di strumenti idonei, miglioramento strutturale e funzionale dell’istituto, ampliamento di attività e protocolli), il lavoro ne gioverebbe. Non si creerebbero situazioni stressanti che inducono ad accrescere approcci negativi al lavoro stesso, e di conseguenza l’assistenza andrebbe sempre a migliorare.
I genitori, a loro volta, si sono dimostrati disponibili a raccontare la loro storia, affinché le persone possano capire, o provare a capire, quanto difficile sia, non solo affrontare la condizione in sé, ma anche e soprattutto quello che circonda la disabilità. L’abbandono da parte degli amici, le ingenti spese economiche, le crisi interne alla coppia, le paure.
Nonostante tutto, la voglia di andare avanti e l’amore per i figli danno la possibilità a tutte le famiglie di affrontare, con coraggio e tenacia, la disabilità; questi genitori ne sono l’esempio.
Si spera, attraverso lo studio effettuato, di aver suscitato l’interesse per un maggior approfondimento. Si ritiene necessario, al giorno d’oggi, che le persone con disabilità e le loro famiglie abbiano la possibilità di vivere dignitosamente e vedano rispettati i propri diritti, ricevendo, come tutti, un’assistenza appropriata e specifica, e non siano più costretti a vivere ancora nella solitudine e nell’emarginazione.
Per contattare la collega Giulia Guerrini per approfondimenti in merito al suo lavoro di tesi: [email protected]
Marco Parracciani
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