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Rapporto Censis-Fnopi: per 9 italiani su 10 servono più infermieri per un Servizio sanitario migliore

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Personale sanitario: sistema discriminante per i passaggi di fascia
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Webinar di presentazione oggi alle 15. Intervengono: Francesco Maietta, responsabile Politiche sociali Censis, Barbara Mangiacavalli, presidente Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche (Fnopi), Tonino Aceti, portavoce Fnopi, moderatore. Parlamentari: Maria Teresa Bellucci, Paola Boldrini, Elena Carnevali, Vito De Filippo, Vasco Errani, Beatrice Lorenzin, Stefania Mammì, Gaspare Antonio Marinello, Roberto Novelli. Associazioni: Maria Cristina Dieci (Asbi), Roberto Messina (Senior Italia – Federanziani), Angelo Ricci (Fiagop).
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Più infermieri per una sanità migliore: gli italiani dicono sì – Il 92,7% degli italiani (con punte fino del 94,3% nel Nord-Est e del 95,2% tra i laureati) ritiene positivo potenziare il numero e il ruolo degli infermieri nel Servizio sanitario nazionale. Il 41,9% al fine di colmare le attuali lacune negli organici, il 40% perché li ritiene essenziali per potenziare i servizi domiciliari, territoriali e di emergenza. Si stimano in 450.000 gli infermieri attivi di cui ci sarebbe bisogno (oggi sono 450.000 gli iscritti, pensionati compresi), 57.000 più di quelli attuali. Questi sono alcuni dei principali risultati del Rapporto Censis-Fnopi sugli infermieri e la sanità del futuro (vedi l’abstract allegato), una ricerca realizzata dal Censis per la Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi).

L’ora dell’infermiere di famiglia e di comunità – Il 91,4% degli italiani (il 95,1% delle persone con patologie croniche, il 92,6% dei cittadini nel Sud) ritiene l’infermiere di famiglia e di comunità una buona soluzione per potenziare le terapie domiciliari e riabilitative e la sanità di territorio, fornendo così l’assistenza necessaria alle persone non autosufficienti e con malattie croniche. Il 51,2% è convinto che l’introduzione di questa figura professionale faciliterebbe la gestione dell’assistenza, migliorando la qualità della vita dei pazienti e dei loro familiari. Il 47,7% pensa che darebbe loro sicurezza e maggiore tranquillità. Il 22,7% ritiene che innalzerebbe la qualità delle cure. Sono i numeri di un ampio e trasversale apprezzamento per una figura strategica per garantire quella sanità territoriale resa ineludibile dall’esperienza del Covid-19. 

Bravi e affidabili – L’idea che più infermieri miglioreranno la sanità, a cominciare da quella territoriale, è anche l’esito di un legame profondo e consolidato dei cittadini con gli infermieri. Il 91% degli italiani ha molta o abbastanza fiducia negli infermieri (il dato sale al 93,8% nel Nord-Est e al 93,7% tra gli anziani). Il 68,9% degli italiani valuta positivamente il rapporto avuto in passato con gli infermieri (il giudizio positivo sale al 73,9% nel Nord-Est e al 72,6% tra chi ha in famiglia non autosufficienti). Una fiducia nata nella sanità vissuta quotidianamente dagli italiani, grazie alla valutazione positiva di professionalità e impegno degli infermieri già prima dell’ammirazione per i tanti casi di eroismo durante l’emergenza Covid-19.

Una professione che attrae – L’83% degli italiani incoraggerebbe un figlio, parente o amico che volesse intraprendere la professione dell’infermiere: il 71,1% perché lo ritiene un lavoro utile in quanto aiuta chi soffre, il 37,3% perché lo reputa un’attività affascinante che fa crescere come persone, il 32,9% perché consente di trovare lavoro. L’infermiere è oggi una professione che piace a tutti, dai giovani agli anziani.

I migliori debunker contro il contagio da fake news – Durante il lockdown, 29 milioni di italiani hanno pescato nel web e nei social network notizie false o non corrette su origini, modalità di contagio, sintomi, misure di distanziamento e cure relative al Covid-19. Gli infermieri, grazie alla fiducia di cui godono presso i cittadini, possono essere i più ascoltati e fidati demistificatori, proteggendo dai rischi delle fake news grazie al rapporto diretto con le persone e alla loro voce presente sui siti web istituzionali.

“I cittadini – sottolinea Tonino Aceti, portavoce Fnpi e moderatore del webinar – hanno chiara la strada che deve imboccare il Servizio Sanitario Nazionale, soprattutto ora con l’esperienza Coronavirus: investire molto di più sulla professione infermieristica esaltando lo sviluppo delle loro competenze e riconoscendogli nuove responsabilità, a partire dalla figura dell’infermiere di famiglia e di comunità, ma anche intervenendo sulle profonde carenze di organici con le quali gli infermieri fanno i conti. In questo modo ad aumentare da subito sarà il livello di accessibilità alle cure territoriali e domiciliari da parte dei cittadini con fragilità, che in questi mesi di emergenza coronavirus si sono dovuti scontrare con un vero e proprio congelamento dei servizi, ma anche l’accesso all’assistenza ospedaliera, attraverso la riduzione delle liste di attesa. Con il Decreto Rilancio, attualmente in fase di conversione in Legge, la politica ha la straordinaria opportunità di dare risposte concrete, allineate e coerenti con i bisogni e il punto di vista dei cittadini emersi da questa indagine. Monitoreremo con attenzione le scelte che si metteranno in campo perché non possiamo permetterci di sprecare anche questa possibilità”.

Chi è l’infermiere di famiglia e comunità – È un professionista – le forme contrattuali le decideranno Regioni e Governo – responsabile dei processi infermieristici in ambito familiare e di comunità, con conoscenze e competenze specialistiche nelle cure primarie e sanità pubblica. Promuove salute, prevenzione e gestisce nelle reti multiprofessionali i processi di salute individuali, familiari e della comunità all’interno del sistema delle cure primarie e risponde ai bisogni di salute della popolazione di uno specifico ambito territoriale di riferimento non erogando solo assistenza, ma attivandola e stabilendo con le persone e le comunità rapporti affettivi, emotivi e legami solidaristici che diventano parte stessa della presa in carico. L’infermiere di famiglia e comunità svolge attività trasversali per accrescere l’integrazione e l’attivazione tra i vari operatori sanitari e sociali e le risorse sul territorio utili a risolvere i problemi legati ai bisogni di salute.

Cosa fa l’infermiere di famiglia e comunità – Ha il compito di svolgere cure domiciliari rispetto all’istituzionalizzazione (ricoveri), garantendo le prestazioni sanitarie necessarie e attivando le risorse della comunità per dare supporto alla persona e alla famiglia nello svolgimento delle attività di vita quotidiana. Agisce a livello ambulatoriale, come punto di incontro in cui i cittadini possono recarsi per ricevere informazioni e orientarsi ai servizi ed eroga prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza rivolti alla prevenzione della collettività, della sanità pubblica, e dell’assistenza di base inclusi interventi di educazione alla salute. Agisce anche a livello domiciliare, a livello comunitario con attività trasversali di integrazione con i vari professionisti e possibili risorse formali e informali, a livello di strutture residenziali e intermedie. Supporta il cosiddetto Welfare di comunità.

Cosa non è l’infermiere di famiglia e comunità“L’ infermiere di famiglia e comunità – spiega Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi – non è l’assistente di studio del medico di medicina generale e non è ‘assunto’ da questo, ma è una figura professionale che insieme ad altre figure professionali forma la rete integrata territoriale, prende in carico in modo autonomo la famiglia, la collettività e il singolo. Ha un ruolo anche proattivo per promuovere salute, educazione sanitaria per la persona sana e la famiglia e la comunità e insegna l’adozione di corretti stili di vita e di comportamenti adeguati. Se poi assiste una persona non autosufficiente, cronica o disabile, coordina anche, come indica l’Oms, le reti territoriali di presa in carico. Abbiamo già esempi di lavoro d’ equipe multiprofessionale come nei consultori o nella rete della salute mentale”.

Aggiunge Mangiacavalli: “Si tratta di equipe multiprofessionali dove c’è necessariamente il medico di famiglia il pediatra di famiglia, ma anche gli assistenti sociali, con i quali gli infermieri condividono molto a livello di attività territoriale quando assistono fragilità e disabilità, gli psicologi, le ostetriche e altre figure professionali come i fisioterapisti, i logopedisti. Tutti a domicilio con un meccanismo di coordinamento professionale che è una sorta di adattamento reciproco tra professioni. E tutto questo si porta dietro anche modalità di assistenza come la telemedicina, la teleassistenza, il telenursing: la vera innovazione è la capacità di guardare attraverso punti di vista diversi i bisogni dei nostri cittadini”.

Come è formato l’infermiere di famiglia e comunità – La sua formazione è a livello universitario, in percorsi post-laurea (laurea magistrale, dottorato, master di I livello), superando, appunto, il modello prestazionale e dando spazio a nuovi modelli di prossimità e proattività che anticipano anche il bisogno di salute e sono rivolti a sani e malati. La sua preparazione prevede anche ruoli complementari come il care managereHealth monitoring, ecc. per dare forte sviluppo alla rete sociosanitaria, con la possibilità di agire in differenti ambiti (dall’ambulatorio al domicilio) con funzioni multiprofessionali in raccordo diretto con il medico di medicina generale, il pediatra di libera scelta, gli assistenti sociali e così via.

I risultati raggiunti dove c’è già – Dove è già attivo (in Friuli Venezia Giulia ad esempio dove lo è dal 2004, ma così si sta rivelando anche in Toscana e in altre Regioni dove la sua attivazione ha già preso piede prima dell’introduzione nel Patto, sono rilevanti a partire da una  risposta immediata alle esigenze della popolazione, che si rivolge al servizio di Pronto Soccorso in modo più appropriato (in un triennio il Friuli VG ha ridotto i codici bianchi di circa il 20%). Poi anche una riduzione dei ricoveri (agisce prima che l’evento acuto si manifesti) e del tasso di ospedalizzazione del 10% rispetto a dove è presente la normale assistenza domiciliare integrata. Dove c’è, si registra anche la riduzione dei tempi di percorrenza sul totale delle ore di attività assistenziale, passata anche dal 33% al 20% in tre anni, con un importante recupero del tempo assistenziale da dedicare ad attività ad alta integrazione sociosanitaria.

Redazione Nurse Times

ALLEGATO: Abstract Rapporto Censis-Fnopi

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