Di fronte alla malattia spesso non bastano le parole della scienza. I protocolli, le terapie, le diagnosi sono strumenti fondamentali, ma non esauriscono la complessità dell’esperienza umana del dolore. A un certo punto, nel percorso di chi soffre, emerge una domanda profonda e spesso silenziosa: “Perché proprio a me?”. È una domanda che non trova risposta nei manuali clinici, ma che apre uno spazio interiore dove la medicina può incontrare la spiritualità.
Qui non si parla qui di religione in senso stretto né di appartenenze confessionali. Si intende spiritualità come ricerca di senso, come bisogno umano e universale di orientarsi di fronte all’incertezza, alla sofferenza, alla morte. Una dimensione che attraversa credenti e non credenti, e che può diventare una risorsa preziosa nel percorso di cura, sia per i pazienti che per chi li accompagna.
Una dimensione spesso dimenticata, ma sempre presente
Per molto tempo il bisogno spirituale è stato confuso o sovrapposto a quello religioso. Ma oggi le neuroscienze, la psicologia e la medicina stessa iniziano a riconoscere l’importanza di questo aspetto. Numerose ricerche dimostrano che un supporto spirituale strutturato può contribuire al benessere psicologico, migliorare la resilienza, ridurre lo stress e la percezione del dolore, e persino influenzare positivamente l’aderenza terapeutica.
Una metanalisi condotta dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health, in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital, ha evidenziato che la spiritualità, se integrata nel trattamento, migliora la qualità della vita dei pazienti, sia nella fase acuta della malattia che nella gestione della cronicità. Lo studio raccomanda l’inclusione di valutazioni spirituali all’interno della pratica clinica e l’attivazione di figure specializzate nel supporto spirituale.
Anche la letteratura scientifica italiana inizia ad affrontare il tema. Un recente articolo pubblicato su Frontiers in Psychiatry sottolinea che riconoscere le dimensioni spirituali e culturali della persona può favorire un approccio più inclusivo e compassionevole alla salute mentale, soprattutto in contesti multiculturali e interreligiosi.
Spirituali anche senza essere credenti
Cosa significa, dunque, spiritualità in ambito sanitario? Non si tratta di proporre risposte metafisiche o consolazioni religiose. Piuttosto si tratta di creare uno spazio di ascolto autentico dove il paziente possa esprimere il proprio vissuto, le proprie paure, le proprie domande più intime. Uno spazio che non giudica, non interpreta, ma accompagna.
Si può essere spirituali senza essere religiosi, come si può cercare un senso anche senza una fede strutturata. La spiritualità può emergere nella poesia, nella memoria, nell’amore per i propri cari, nella connessione con la natura o, semplicemente, nel desiderio di lasciare un segno. In questo senso la spiritualità è parte della nostra umanità, ed è proprio per questo che può diventare parte integrante della cura.
Il modello anglosassone: la figura del “chaplain”
Nei Paesi anglosassoni questa consapevolezza ha dato origine a una figura professionale ben definita: il chaplain, o cappellano clinico. Non si tratta necessariamente di religiosi, ma di professionisti formati per offrire supporto spirituale nei contesti sanitari. Negli Stati Uniti l’HealthCare Chaplaincy Network fornisce linee guida e percorsi formativi rigorosi: per essere riconosciuti è necessario completare un percorso accademico e un anno di tirocinio clinico supervisionato all’interno degli ospedali.
Il chaplain lavora in stretta collaborazione con medici, psicologi e infermieri ed è coinvolto soprattutto nei momenti più delicati: diagnosi gravi, fine vita, lutti, crisi esistenziali. Il suo compito non è fornire risposte, ma stare accanto, facilitare l’espressione del vissuto interiore, aiutare il paziente a riscoprire risorse personali anche nei momenti più difficili.
E in Italia?
Nel nostro Paese la situazione è molto diversa. La Legge 833 del 1978 garantisce la libertà religiosa nelle strutture sanitarie, ma non esiste ancora un percorso strutturato per formare professionisti dell’assistenza spirituale. Attualmente il supporto spirituale è affidato perlopiù ai cappellani religiosi tradizionali o al prezioso lavoro dei volontari ospedalieri. Tuttavia manca una visione integrata, che consideri la spiritualità come parte della presa in carico globale della persona.
Negli ultimi anni alcune università e associazioni hanno iniziato a proporre corsi di formazione in “spiritual care”, ma serve una riflessione più ampia a livello istituzionale e culturale. L’assistenza spirituale non è un lusso né un privilegio: è un diritto della persona malata, e una risorsa anche per chi cura. Inserirla nei percorsi sanitari significa umanizzare la medicina, renderla capace di ascoltare non solo i sintomi, ma anche il senso che quei sintomi portano con sé.
Restare accanto, senza dover spiegare
In definitiva, la spiritualità nella cura non offre soluzioni facili. Non toglie il dolore, non elimina l’incertezza e può trasformare l’esperienza della malattia, offrendo uno spazio dove il paziente non si sente solo, dove anche il silenzio diventa cura. È in quella presenza discreta e compassionevole che, forse, si manifesta la spiritualità più autentica: non quella che risponde, ma quella che sa restare accanto.
Anna Arnone
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