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Quando il demansionamento inizia all’università: intervista ad un giovane laureando in infermieristica

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Sfogo di una infermiera "Nel Bel Paese dalla passione alla frustrazione è un attimo"
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Di seguito pubblichiamo un’intervista rilasciata da uno studente del corso di laurea in Infermieristica giunto al termine dei propri studi e prossimo alla dissertazione della tesi.

Il documento è finalizzato a far riflettere sia studenti che infermieri già formati che interagiscono quotidianamente con i tirocinanti.

La redazione di Nurse Times ringrazia M.M. per l’importante testimonianza riportata e si impegna a garantire il suo anonimato così come da lui richiesto:

Cosa ti ha spinto ad intraprendere il percorso di studi per ottenere la laurea in Infermieristica?

In verità mi trovai quasi per caso ad intraprendere questo percorso: mi diplomai nel 2009 all’istituto tecnico industriale con indirizzo meccanica e, non trovando lavoro, frequentai un corso di disegno tecnico che purtroppo non mi offrì alcuno sbocco.

Fui affascinato dal settore sanitario nel 2011 a seguito di problemi di salute avuti e cominciai a pensare di frequentare l’università per imparare una professione anziché un semplice mestiere. La mia idea iniziale fu di diventare un tecnico sanitario di radiologia medica, dato che rimasi affascinato dalle metodologie utilizzate per effettuare una risonanza magnetica durante una visita in ospedale.

Mi informai raccogliendo dati riguardanti la disoccupazione dei tecnici di radiologia medica optando a favore di Infermieristica, descritta dai mass-media come la laurea con il maggior tasso di occupazione nei primi mesi dopo il conseguimento del titolo. 

Incoraggiato dai molti infermieri presenti nella mia famiglia, mi avventurai nel percorso universitario. Mia madre mi disse che non era più come una volta: “Ora l’infermiere è un professionista intellettuale, qualcosa di più che semplice manodopera”. Mi iscrissi e, solo dopo aver superato il test di ingresso, capii che, vista la poca considerazione della nostra professione e la disoccupazione, avrei fatto meglio ad approfondire le mie conoscenze matematiche iscrivendomi ad Ingegneria Meccanica…

Il giorno del test d’ammissione trovai oltre mille candidati a concorrere per 360 posti. Venimmo divisi in 3 gruppi da circa 350 persone l’uno; ogni aula venne presidiata da soli 3 assistenti e potetti assistere ad una vera e propria lotta per la sopravvivenza nella quale solo il più abile a copiare da smartphone nascosti, bigliettini e libri riuscii ad avere la meglio sugli altri tra domande strampalate di cultura generale, biologia, storia e chimica. Molti candidati riuscirono ad accedere al corso di laurea in Infermieristica con punteggi bassissimi solo grazie alla rinuncia di altri studenti che si orientarono verso corsi di laurea reputati più prestigiosi.

Quali costi hai dovuto sostenere durante il corso di studi?

Abitando vicino al polo universitario ho potuto ridurre al minimo i costi relativi agli spostamenti. La vicinanza all’ospedale fu uno dei fattori principali che mi spinsero a propendere per infermieristica.

Mi arrangiai acquistando libri usati e fotocopie per risparmiare studiando spesso da internet. Le tasse universitarie, avendo fortunatamente un ISEE basso, ammontarono a circa 850 euro annui.

Alcuni docenti obbligarono ogni studente ad acquistare il libro da loro stessi scritto per poter superare l’esame relativo con l’obbligo di inviare via e-mail addirittura il codice ISBN ed il riferimento della libreria universitaria nel quale venne acquistato.

Accaddero veri e propri casi di umiliazione in sede di esame nei confronti di studenti che non comprarono il testo seguendo la procedura indicata.

La cosa che mi pesò più di qualsiasi spesa fu dovermi svegliare ogni mattina alle 5.30 per andare in reparto ed essere sfruttato semplicemente come manodopera o come tappabuchi.

Qual è stata la tua prima impressione frequentando lezioni e tirocinio?

La prima impressione fu davvero eccezionale ma, in seguito, tutto divenne davvero deludente. Le lezioni di anatomia, biologia ed istologia furono in comune con le altre professioni sanitarie. Percepii l’aria di vera università studiando in aule eleganti e prendendo parte a discussioni stimolanti.

Le delusioni arrivarono quando frequentai le lezioni di infermieristica: il tutto venne coordinato ed organizzato da anziane suore indiane dalle dubbie competenze scientifiche. Non mi sembrò giusto che, nel terzo millennio, il professionista infermiere fosse ancora accostato a queste figure religiose.

Le aule dedicate alla materia di indirizzo (le stesse utilizzate per il corso regionale molte decine di anni fa) apparirono fatiscenti e prive di video-proiettore e computer. Le docenti illustravano le lezioni attraverso lucidi realizzati a mano sul momento con pennarelli indelebili. Le finestre delle aule non potevano essere aperte e presentavano grosse inferriate proprio come fossimo in una casa circondariale.

I contenuti delle lezioni di infermieristica mi parvero davvero mortificanti: quasi tutto il primo anno fu incentrato sul rifacimento del letto e sull’igiene del paziente.

Le cose peggiorarono notevolmente quando dovetti affrontare il primo tirocinio clinico. Gli spogliatoi nei quali alloggiavamo per cambiarci prima del tirocinio avevano il riscaldamento guasto, bagni devastati dai vandali e vetri mancanti alle finestre.

Dopo aver indossato la divisa per il tirocinio avevamo l’obbligo di firmare il foglio firme nell’ufficio delle suore che, allo stesso tempo verificavano che il nostro aspetto fosse sufficientemente decoroso per poter poi andare in reparto, accertando che la barba negli uomini fosse rasata, che le donne non indossassero trucco e che i calzini di tutti fossero rigorosamente bianchi.

Ancora ricordo l’umiliazione subita nel giorno in cui le suore scoprirono che i miei calzini erano neri. Mi fu impedito di andare in tirocinio e, ribellandomi aspramente a tale decisione, subii la sospensione dal tirocinio per una settimana dovendo recuperare le ore con turni nei weekend.

Come giudichi il metodo di studio adottato ed i docenti?

Direi molto approssimativo a dire il vero; le docenti di infermieristica erano meno preparate dei docenti medici ma più disponibili. Non erano in grado di seguirci pienamente poiché in numero ridotto rispetto al gruppo di studenti. Alcuni docenti medici erano gentili, altri, scortesi e svogliati si limitavano solo alla lettura delle slide. Spesso non si presentavano in orario per le lezione affidando la stessa ad uno specializzando.

Sei riuscito a mettere in pratica in tirocinio quanto appreso durante le lezioni teoriche?

Quasi mai. Spesso dopo aver frequentato lezioni riguardanti il paziente chirurgico mi sono ritrovato in un reparto di medicina o di geriatria, quindi senza alcun collegamento con quanto precedentemente appreso.

Sarò stato sfortunato ma, frequentando tre anni di tirocinio clinico, ho potuto provare a posizionare un catetere vescicale solo 3 volte.

Ho vissuto l’esperienza più positiva in ematologia, dove mi sono esercitato con prelievi ematici regolarmente, riuscendo a posizionare anche alcuni aghi cannula.

Nella maggior parte delle esperienze di tirocinio ho sopperito per tutto il periodo alla mancanza di operatori socio-sanitari ed altro personale ausiliario assente per malattia o ferie.

Come giudichi il livello di preparazione dei tutor clinici incontrati in reparto?

Mi è capitato di frequentare reparti nei quali non era presente la figura del tutor ed altri dove i tutor presenti erano turnisti difficilmente raggiungibili. Ho trovato anche persone disponibili, simpatiche e preparate ma, l’esperienza che più mi ha segnato è stata la valutazione negativa ricevuta per aver accudito un malato terminale ricoverato nel reparto di oncologia.

Non aveva alcun parente ed era abbandonato a se stesso. Ho voluto cambiargli la maglietta sporca che indossava da molti giorni consecutivi e, per fare ciò, ho erroneamente maneggiato il CVC del paziente senza utilizzare i guanti sterili venendo letteralmente aggredito dall’operatore socio sanitario al quale ero affiancato per l’intero turno. Ricevetti una valutazione complessiva insufficiente che mise in seria discussione il proseguimento del mio percorso universitario.

Un’ulteriore esperienza che mi è rimasta impressa fu il divieto di eseguire prelievi ematici dopo aver causato un ematoma ad un paziente durante  uno dei miei primi tentativi di apprendere questa nuova procedura.

Ancora ricordo le parole del tutor: “Tu non farai più prelievi in questo reparto!”

Al termine dei tre anni di tirocinio ho capito che il vero problema della nostra professione non è il lavoro duro che dobbiamo svolgere, non è il demansionamento istituzionalizzato ma il principale ostacolo é dato dai colleghi stessi che adottano atteggiamenti non costruttivi comportandosi come odiose maestrine saccenti.

Il percorso di studi affrontato ha disatteso le tue aspettative? 

Direi di si: la farmacologia è stata davvero troppo sbrigativa mentre le lezioni sono state per la maggior parte superficiali e insegnate tanto per realizzare il monte ore necessario, senza alcun approfondimento particolare.

I laboratori pratici sul trattamento al paziente politraumatizzato sono stati molto sbrigativi e per nulla approfonditi. In sostanza anche il percorso di studi soffre della poca considerazione che ha la professione infermieristica in Italia.

Il corso universitario è sufficientemente formativo?

Direi appena sufficiente: come già detto precedentemente, durante il tirocinio nella maggior parte dei reparti, sono stato sfruttato come manodopera ma, poiché questo sarà quello che dovrò andare a fare qualora riuscissi a venir assunto in ospedale, ritengo di essere stato formato adeguatamente ed essere preparato al demansionamento.

La cosa che più mi fa arrabbiare è che, a parità di titolo di studio, fisioterapisti, tecnici di radiologia e altri professionisti sanitari non devono sopperire alla carenze organiche e sono socialmente più considerati rispetto agli infermieri.

Hai mai pensato di interrompere il percorso universitario?

Si, dopo essere stato trattato malissimo durante il primo tirocinio del secondo anno.

Ricordo che finii in un reparto dove molto spesso mancavano le figure di supporto e che io avevo il compito di sopperire a questa carenza.

Ero a colloquio con una paziente che aveva chiesto spiegazioni in merito ad un esame diagnostico che avrebbe dovuto sostenere ed io, essendo preparato sull’argomento, le spiegai la procedura appresa sui libri di testo. Questo fu uno dei pochi momenti nei quali mi sentii quasi un professionista intellettuale. Purtroppo il dialogo venne bruscamente interrotto da un infermiera che, gridando dal fondo del corridoio mi disse: “Allievo vieni! Ci sono le teiere da lavare ed i carrelli della colazione da riordinare!”

Temendo rivendicazioni ed un’ulteriore giudizio negativo mi avviai verso la cucina. Venni aspramente sgridato da questa “professionista” che mi disse: “Per le spiegazioni ai pazienti c’è il medico. Tu non sei autorizzato a parlare di queste cose. Tu devi solo eseguire gli ordini senza pensare”.

Terminata questa giornata di tirocinio pensai seriamente di interrompere il percorso di studi.

Decisi di proseguire solo per non buttare via i soldi che avevo già investito poiché ritengo che questa sia ancora una professione importante nonostante l’opinione pubblica ci consideri come schiavi dei medici e come assassini seriali o angeli della morte.

Come immagini la tua carriera lavorativa post laurea?

La immagino molto deprimente. Ho sentito che per lavorare dovrò accettare 3 euro netti all’ora con partita iva in qualche casa di riposo con 150 pazienti amministrata da qualche “potente” oppure dovrò vagare per l’intero paese affrontando test di concorsi pubblici con 14000 candidati  per 30 posizioni disponibili, con la speranza di poter ottenere un posto fisso che mi costringerà a svolgere principalmente mansioni domestico-alberghiere con l’obbligo di fare turni di straordinario a causa della carenza cronica di personale.

Molti colleghi neolaureati fanno volontariato all’interno di strutture private pur di non rimanere a casa ad attendere per qualche contatto conseguente alle migliaia di curricula inviati, altri colleghi lavorano come badanti o effettuano tirocini post laurea non retribuiti nelle case di riposo.

demansionato

Terminata questa intervista alcuni interrogativi sorgono spontanei: nelle dichiarazioni dello studente è possibile intravedere molti comportamenti scorretti ma, altrettanti errori sono ravvisabili negli atteggiamenti degli infermieri.

É davvero possibile uniformare un gruppo così disomogeneo e così numeroso come quello formato dagli infermieri operanti in Italia?

Se il demansionamento, il basso profilo professionale, le mansioni domestico alberghiere e il servilismo sono le basi sulle quali vengono formati i nuovi infermieri come potrà mai la nostra professione evolversi ottenendo quel riconoscimento sociale, lavorativo, contrattuale ed economico auspicato?

Un’autentica denuncia quella di M.M., un grido di dolore che testimonia quanto sia difficile e differente la formazione all’interno delle università italiane…

Simone Gussoni

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