“..la più bella arte tra le arti belle”
ripartirei da qui, dalle parole di Florence Nightingale, da sempre ritenuta la fondatrice della Scienza Infermieristica. Accanto alla “signora della lanterna” voglio aggiungere un personaggio italiano, fondatore di una delle più grandi realtà industriali del nostro Paese ovvero Adriano Olivetti.
Perché ripartire da due personaggi cosi apparentemente distanti per provare a scrivere alcune riflessioni in merito alle notizie che si sono avvicendate nel mondo sanitario, ed infermieristico in particolare, in questi ultimi giorni.
Intanto perché ritengo di fondamentale importanza, in una fase storicamente post valoriale, provare a riscoprire le lezioni importanti che ci giungono dal passato, inoltre in un contesto piuttosto caotico mettere dei punti o paletti, può essere il metodo corretto per poter pensare di andare avanti.
In questi mesi, in cui ci siamo arrovellati attorno al comma 566, nessuno di noi ha pensato che occorreva qualcosa di più significativo che il semplice “appellarsi alla norma“, per mesi siamo andati avanti tra scossoni e manifestazioni di pensiero in cui il centro del problema non era la professione ma come “normare” la stessa perché essa potesse trovare la collocazione idonea in una fase di cambiamento.
Sul finire del 2015 qualcosa è cambiato, per merito di molti colleghi, che hanno cominciato a chiedersi se davvero tutto girava attorno alle norme o se invece c’era un problema più profondo che insisteva su un impoverimento culturale legato a diversi fattori.
Rileggendo la storia di Florence Nightingale ci si accorge come ella non cerchi di avvalersi delle norme per provare a cambiare la dimensione della sua opera, ma si impegna a dimostrare con le sue iniziative quanto andava predicando sulle condizioni dei pazienti e della prognosi. Non a caso in lei possiamo ritrovare, oltre che la madre della Scienza Infermieristica, anche la “madrina” della Gestione del Rischio Clinico (come Padrino io ho personalmente eletto il Dr Ignàc Semmelweis che introdusse il lavaggio nelle mani nel suo reparto di ostetricia ottenendo una riduzione della mortalità materno infantile, anno 1848).
Dunque la sua “lanterna” deve tornare ad essere guida, in una nuova dimensione di “studio” e “ricerca” per dimostrare quanto il valore del lavoro infermieristico possa essere determinante nel nuovo millennio, superando di slancio politiche (e norme) che altro non fanno che mantenere la professione ad un livello di impiego “fordistico” dove la prestazione diventa simile a quella della catena di montaggio metalmeccanica.
Occorre dunque studiare, non solo l’apprendimento della Scienza Infermieristica in quanto tale, ma soprattutto le dimensioni sociali in cui si muovono coloro che ci apprestiamo ad assistere nel prossimo futuro: se l’OCSE ci dice che nel 2050 avremo un numero di anziani tale da non riuscire, a modello di risposta attuale, a soddisfare le esigenze di salute che essi ci chiederanno, noi abbiamo l’obbligo di mettere in campo la nostra Scienza per provare a delineare soluzioni che possano dare quelle risposte. Solo così potremo dimostrare quanto sia anacronistico ed antistorico l’impiego del personale infermieristico con i modelli attuali, modelli che non solo non aiutano la realizzazione della Scienza in tutte le sue potenzialità ma culturalmente schiacciano l’infermiere in una posizione rivendicatrice che nulla a che fare con la sua dimensione intellettuale.
Se al lettore appare del tutto scontato il riferimento alla Nightingale, ovviamente la domanda su cosa possa centrare un imprenditore di macchine da scrivere, seppur illuminato, come Adriano Olivetti è del tutto legittima.
Se la nostra Professione vuole davvero crescere al di fuori delle norme deve provare a farsi contaminare dal “pensiero” per poter arricchirsi e tentare l’evoluzione culturale che ancora stenta a decollare all’interno non solo del sistema ma anche socialmente.
Puntare alla dimensione “sociale” della professione è, dal mio punto di vista, il pensiero riformatore che è necessario per poter diventare pungolo per una più ampia visione riformatrice del Sistema Sanitario.
Utilizzare il pensiero politico di Adriano Olivetti è notoriamente impresa ardua perché esso ha una dimensione poliedrica in cui districarsi è complesso e il rischio di scivolare in un errore interpretativo è alto.
Ovviamente non mi avventuro in una disquisizione sul pensiero politico, anche se consiglio vivamente di farlo ai lettori visto l’attuale momento, ma vorrei provare a raccogliere un pezzo di eredità delle sue riflessioni per inserirle nel nostro contesto professionale.
Uno dei cardini fondamentali del pensiero olivettiano è la teoria della “comunità”. Riporto una migliore interpretazione del concetto a cura del noto sociologo Franco Ferrarotti, collaboratore di Adriano Olivetti, dunque profondo conoscitore delle sue opere. Ferrarotti, meglio di chiunque altro spiega questo concetto “..al centro del pensiero olivettiano, quasi come suo nucleo motore, vi sia una intuizione essenzialmente politica: l’intuizione della comunità e dei suoi compiti, rispetto al nostro tempo; la comprensione del significato ultimo dello sviluppo della comunità in una società industriale, o semplicemente post-contadina, tendenzialmente alienata; la capacità di intendere i molteplici problemi (di adattamento, di mediazione, di integrazione) posti dal rapporto fra gruppo e storia, fra gruppi primari, o comunità naturali, e istituzioni codificate, fra Società e Stato.” (Comuntà e democrazia nel pensiero politico di Adriano Olivetti).
E’ evidente che queste righe non sono sufficienti a soddisfare la curiosità che il lettore, spero, prova nel leggere delle frasi apparentemente così lontane dal nostro contesto professionale.
La visione politica attuale del Infermieristica soffre da troppo tempo della dicotomia tra Scienza e Politica, una dicotomia legata alla incapacità della seconda a permettere alla prima di esercitarsi all’interno del sistema.
Quello che colpisce è la continua ricerca di una politica che non ha una visione comunitaria, come invece dovrebbe avere, ma si basa sulla cultura moderna della politica/politicante attribuendo ad essa “…poteri organizzativi autonomi, impersonali e necessitanti, intrinsecamente razionali, per cui l’importante è lasciare via libera allo sviluppo, il meglio viene a coincidere con il nuovo o anche solo con il diverso, andare avanti significa automaticamente «andare bene»…”
In queste parole possiamo ritrovare la politica professionale degli ultimi 15 anni.
Ecco dunque come la figura di un uomo apparentemente lontano nel tempo e nello spazio professionale, possa diventare un ulteriore strumento di valutazione della nostra situazione professionale.
La bulimia normativa che ha coinvolto la nostra professione è stato l’unico “andare avanti” ora occorre fermarsi e cambiare decisamente rotta.
Quale visione futura per la professione? Non sono un accanito sostenitore che sia lo sblocco del turnover l’unica soluzione, questo ha una logica occupazionale che nulla a che vedere con lo sviluppo professionale. Non sono altresì convinto che sia il comma 566 o il recepimento delle normative europee (peraltro già tutto previsto in quella italiana) a sostenere o stimolare lo sviluppo professionale.
Mi chiedo quale Sanità, o meglio, quale Assistenza vogliamo immaginare per il futuro?
Ad oggi osservo un accentramento delle politiche sanitarie verso i grandi centri urbani, con un inevitabile svuotamento delle periferie. Questa è una visione della Sanità di domani, dove per poter accedere alla cure sanitarie è necessario una mobilità piuttosto elevata. Nelle periferie appare sempre più scontato una visione di risposta ai bisogni piuttosto povera, almeno stando a quello che posso vedere.
Insomma si aprono spazi interpretativi importanti su come organizzare e gestire il fabbisogno di salute dei cittadini nelle zone periferiche e disagiate al fine di impedire la formazione e la crescita delle disuguaglianze, parafrasando Adriano Olivetti “le grandi Aziende Sanitarie nelle forme concentrate e monopolistiche atomizzano l’uomo e lo depersonalizzano”
In questo senso la politica infermieristica può e deve proporre delle soluzioni, lontano dal paradigma della logica aziendale ma dando spazio al proprio valore sociale di professione sanitaria.
Evidentemente questo deve essere accompagnata da una capacità di interpretazione del bisogno assistenziale e qui, dopo le parole di Olivetti, tornano quelle della Nightingale.
Una strada da percorrere insieme, alle importanti personalità scientifiche della nostra professione ed alle capacità di altrettante personalità politiche.
E’ una necessità questo connubio per uscire dall’ostracismo che gli infermieri vivono non per incapacità ad emanciparsi ma perché per farlo occorrono strumenti.
Occorre anche una buona dose di incoscienza per proporre qualcosa che spacchi definitivamente questa immobilità.
Andando alla ricerca del “pensiero riformatore” e ripensando al passato, possiamo provare a porre fine ad un paradosso ed un errore.
Come per l’economia occorre un shock: è tempo che la Professione Infermieristica chieda un tavolo di confronto con tutte le altre professioni ed insieme si decida un percorso di unificazione, tracciando dal punto di vista formativo due sole branche: quella delle Scienze Infermieristiche e Sociali e quella delle Scienze dell’Area Tecnica Sanitaria.
Non 22 percorsi, ma solo due, durante i quali si acquisisce una sola laurea e poi si intraprende un percorso di specializzazione. Insomma, prima diventi Infermiere poi decidi se specializzarti in Fisioterapia, Podologia, ecc.
La riforma passa attraverso una capacità di visione del nostro futuro e non può non cominciare dalla formazione.
Piero Caramello
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