Tra le tante pagine social di infermieri, medici e operatori sanitari che raccontano le loro esperienze in prima linea, ce n’è anche una su Instagram che si chiama proprio @dietrolamascheralibro.
Appartiene a Pasquale Dente, un infermiere di origini napoletane che ha deciso di raccontare nero su bianco l’esperienza di una collega trovatasi a fronteggiare l’emergenza Covid-19.
Adesso lavora con la Oxford University in terapia intensiva cardiotoracica divenuta reparto Covid, ed è proprio da lì che vede il suo libro arrivare sulle scrivanie degli infermieri italiani.
Da dietro una maschera a dietro ad una penna: come nasce l’idea della scrittura?
Ho sempre avuto la passione per la scrittura, infatti ho scritto in passato su alcune testate riguardo all’infermieristica. Però questo libro nasce dal momento in cui ho sono entrato nel mio reparto, la terapia intensiva cardiotoracica presso la Oxford University. Ero libero dal turno per quattro giorni consecutivi: ricordo che ero smontante notte la mattina di Lunedì e che non avevamo pazienti positivi al Covid, anche se vociferava che sarebbero potuti arrivare.
Quando sono tornato Giovedì notte a lavoro ho trovato 20 pazienti positivi intubati e la situazione sembrava davvero impossibile da gestire, paradossale e surreale. Mi è venuta in quel momento l’idea di scrivere un pezzo giornalistico, poi continuando a lavorare sono giunto alla conclusione che un articolo non sarebbe bastato per descrivere tutto questo, ecco perché il libro. Il motivo principale per cui l’ho scritto è il voler lasciare una testimonianza, forse potrebbe essere troppo pretenzioso da parte mia, però da quando ci lavoro, da quando ho visto tutto questo, ho iniziato a pensare che anche gli altri dovessero vedere e capire cosa stesse succedendo.
Infermieristica e scrittura: pensi che la narrativa possa essere uno spunto di crescita per la professione?
Penso che gli scritti possano dare uno spicco, far migliorare un pochino la nostra professione, perché se ci pensiamo bene tutti i film e le serie TV vedono protagonisti i medici, l’infermiere è quasi sempre messo da parte, ad esempio pensiamo a pensiamo a “Gray’s Anatomy”.
Diciamo che per dare un maggiore risalto alla nostra professione penso che qualche libro possa aiutare, ti dico per esperienza che le persone che leggono il mio libro (parlo di non sanitari) spesso mi contattano per chiedermi: “Ma voi veramente avete vissuto questo? Allora veramente in una terapia intensiva succede tutto questo?”. Ascoltare il telegiornale è un’altra cosa, sentire raccontare o comunque leggere vicende di persone che lo fanno di professione è diverso, può essere un qualche punto di risalto in più per noi.
Un fattore che ho descritto nel mio libro è che è arrivato molto al personale laico è il senso di oppressione che ci fa percepire il dover tenere la mascherina durante tutto il turno. Un altro problema importante che ho citato è la difficoltà che si incontra quando si devono espletare i propri bisogni: con questo ho dato riscontri reali a persone che non hanno vissuto tutto questo, persone che stanno apprezzando e stanno capendo quello che c’è stato e quello che c’è durante questo periodo.
In linea generale la letteratura può aiutare la nostra professione? Sì, ma solo se è rivolta ad un pubblico ampio, non solo al pubblico infermieristico, perché noi sappiamo quello che facciamo e conosciamo le potenzialità della nostra professione. Se è rivolto ad un pubblico più esteso per far conoscere la nostra professione su larga scala, può aiutare.
Chi è realmente Lucia, la protagonista del libro?
Chi è Lucia? Ti anticipo questo: il libro termina con un ringraziamento proprio a lei, personaggio di fantasia che però rappresenta tutti noi. Tutti noi perché Lucia ha le sue debolezze, il libro “Dietro la maschera” è tutto improntato su questo. Tutti dicono che sono stati scritti tantissimi libri sul Covid, ma il mio non è un libro sul Covid, io parlo di Lucia, una ragazza napoletana e giovane che all’inizio è molto spensierata, che può apparire spesso superficiale per le sue attitudini, ma che poi si trasforma nel momento in cui va a lavorare.
Ed è proprio lì che comincia ad avere delle debolezze. Quelle stesse debolezze che abbiamo affrontato tutti noi infermieri lavorando con il Covid: la mancanza di casa, la mancanza della famiglia, la paura di infettarsi, la paura di infettare i propri cari.
Qual è il messaggio che vorresti far arrivare ai tuoi lettori?
Sicuramente quello che dietro la maschera non ci sono supereroi, non ci sono robot, non ci sono persone che devono essere applaudite. Noi siamo infermieri, persone normali che hanno studiato per affrontare tante difficoltà. Le stesse persone che hanno bisogno di rispetto, tanto rispetto…ma anche di altro. In Italia l’infermiere non ha bisogno di applausi, ha bisogno di riconoscimento economico e contrattuale.
Quando ho lavorato a Napoli ho veramente visto la mia professione cadere in basso, proponevano contratti a 4/5€ l’ora, una situazione orribile. Sono tornato in Inghilterra non essendo riuscito ad avere un buon contratto a Napoli, ma comunque durante questa pandemia ho avuto contratti di lavoro, sempre a Napoli, di 3-6 mesi. Anche questa situazione non ha cambiato il nostro problema. Il messaggio che voglio lanciare è proprio questo: dietro la maschera ci sono persone con paure, disagi e bisogni, che possono essere economici, contrattuali, ma anche fisici.
Sulla tua pagina Instagram ci sono foto di colleghi con e senza la mascherina: cosa ti trasmettono, quando te le inviano?
Le foto dei colleghi sono davvero bellissime. Ho iniziato a raccoglierle ad Agosto, quando ancora non sapevo bene cosa ci volevo fare. Ho chiesto a colleghi su vari gruppi di Facebook di inviarmi foto con i DPI perché stavo creando la copertina del libro: mi sono arrivate circa 200 foto di infermieri che indossavano la mascherina.
Ero felice, perché avevo avuto una buona risposta, perché in tanti avevano risposto ad un perfetto sconosciuto. Ne avevo scelte alcune per la realizzazione della copertina, ma me l’hanno sconsigliato di utilizzarle in questo modo per ragioni legali. Nasce da qui l’idea di creare il contrasto tra l’indossare la mascherina e il non indossarla: ho pensato allo scopo, il voler mostrare a tutti chi c’era dietro la maschera, raccontare le loro storie, dire a tutti chi sono. Nel libro ad un tratto si parla di una scena in cui una paziente chiede il contatto Facebook a un infermiere, motivando la sua richiesta non per avere la sua amicizia, piuttosto per vedere il suo volto che non poteva visionare durante il turno.
Questo concetto è molto importante, lo considero l’emblema del libro. Ho provato tanta gratitudine nel ricevere le foto dei colleghi, perché nel momento in cui un infermiere si racconta io capisco che sta capendo il mio progetto e che lo condivide. È successo che qualcuno mi abbia chiesto qualcosa in cambio, mi sono semplicemente limitato a rispondere. Tra l’altro mi trovo ancora in fase di raccolta, quindi lancio un messaggio a chiunque legga questo articolo, chi vuole può seguire la mia pagina e inviarmi le foto, sarò più che felice di pubblicarle!
E tu invece, come hai vissuto il lockdown?
Il lockdown l’ho vissuto in Inghilterra, un po’ come tutti. A quanto pare abbiamo avuto però un lockdown un po’ diverso sotto alcuni aspetti; i negozi erano tutti chiusi, però potevamo andare a passeggiare e fare sport. Inizialmente l’ho passato da lavoratore, poi da malato, perché mi sono fratturato una mano: 23 giorni senza lavorare, a fare grandi passeggiate nei parchi con la mia fidanzata.
Nel momento in cui sono ritornato a lavoro ho trovato quello che poi è il messaggio principale che lancio nel libro, i livelli di stress altissimo che sostenevano i miei colleghi, talmente alti che nessuno di loro riusciva a rendersene conto. Notavo molto la differenza tra me e loro, nel riprendere il lavoro ho avuto la fortuna di essere “esterno” a tutto, lavorando comunque assieme a loro e conoscendo la situazione.
Il problema non era più solo il virus, ma anche i colleghi che erano troppo stanchi. Finita la pandemia abbiamo chiuso per un periodo il reparto, ma adesso siamo nuovamente pieni con pazienti positivi al Covid. Molti colleghi sono andati via, in tanti cambiando reparto, perché comunque credo che questa pandemia abbia segnato un po’ tutti. Sono arrivato a questa conclusione avendo avuto il privilegio di poter mettere in “pausa” per un breve periodo il mio vivere il lockdown per poi riprendere la vita lavorativa, avendo quindi avuto questo doppio punto di vista.
Ci hai raccontato che le critiche dei negazionisti non hanno tardato ad arrivare: a chi crede che tutto questo sia solo un pretesto per creare terrorismo mediatico, cosa vorresti dire?
Quando sono tornato a Napoli alcune persone mi hanno fermato per strada chiedendomi se davvero tutto questo fosse reale. Le persone volevano sapere da me se davvero questo Covid era stato così aggressivo, se sono vere le notizie dei telegiornali o se era una modalità per ingigantire le cose.
La mia risposta è sempre stata la stessa: “Se è vero o non è vero non lo so, però io di persone nei sacchi bianchi ne ho messe parecchie, e se queste persone avessero fatto finta, sarebbero state davvero brave, perché a me sembravano davvero decedute.” Tanti hanno recensito il mio linguaggio come reale e crudo, ma io sono proprio così.
Quando mi arrivano le critiche spesso le posto sulla mia pagina. Qualcuno mi ha detto che il mio libro va ad alimentare una situazione che non esiste, come se io fossi manovrato da una corrente pseudo-politica. Sono semplicemente manovrato dai miei occhi, che hanno visto una situazione brutta, e purtroppo continuano a vederla.
Ai negazionisti cosa dico? Che facciano quello che vogliono, credo che sia anche un modo per proteggersi, il non credere a tutto questo. Non voler accettare la realtà è un modo per difendersi, quando la realtà è davvero tutt’altro.
Arianna Michi
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