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PAI: uno strumento assistenziale sull’orlo del fallimento

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Rsa, gli infermieri toscani ribadiscono le loro proposte
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Il PAI, ovvero il Piano Assistenziale Individuale, è lo strumento di esercizio che vincerebbe il primo premio tra gli strumenti utilizzati non correttamente o sottoutilizzati.

Ci si imbatte quasi per caso, quando si comincia a lavorare nelle strutture Socio Sanitarie ma raramente viene spiegato cosa sia ma soprattutto a cosa serve.

Ci si ritrova all’interno di una riunione di equipe (nelle situazioni più fortunate) oppure da soli a “compilare” un modulo con diverse voci da riempire e spesso senza sapere esattamente cosa scrivere.

Nessuno alzi urla di scandalo, occorrerebbe avere il coraggio di affermare che fuori dalle discussioni accademiche o filosofiche il PAI rappresenta probabilmente lo strumento meno compreso dagli operatori e spesso utilizzato solo a fine burocratici e statistici.

Perché uno strumento nato negli 90 e irrobustito e sostenuto  anche da precise normative nazionali e regionali ,infatti non a caso la normativa nazionale sui requisiti minimi di organizzazione delle RSA si legge “…stesura di un piano di assistenza individualizzato corrispondente ai problemi/bisogni identificati..”, ovviamente ogni regione ha poi recepito la normativa inserendo le proprie specifiche. Ad esempio in Lombardia e Toscana (due Regioni a diversa organizzazione socio-sanitaria) il PAI è inserito fra i requisiti per l’accreditamento.

Accanto a questa prerogativa “burocratica” dobbiamo affiancare altri problemi che sono da troppo tempo sottaciuti e che stanno svilendo uno strumento che da “esercizio” ha finito per renderlo mera “sintesi” dei bisogni del paziente.

Il PAI, strumento di valutazione multidimensionale e di conseguenza di equipe, dovrebbe rappresentare il fulcro dell’Assistenza di un gruppo inter-professionale che si riunisce per valutare i bisogni del paziente, le sue potenzialità ed elabora obiettivi a breve-medio-lungo termine da raggiungere per migliorare la qualità di vita, la performance e le eventuali disabilità dello stesso.

Un elaborato che prende vita all’interno di uno spazio di pensiero durante i quali l’equipe analizza quattro dimensioni della vita del paziente in comunità:

  • Dimensione clinico-sanitaria: area di competenza medica ed infermieristica
  • Dimensione Assistenziale: area di competenza infermieristica e socio-sanitaria
  • Dimensione Riabilitativa: area di competenza fisioterapica
  • Dimensione Sociale: area di competenza degli Animatori e degli Operatori Socio Sanitario

Questo spazio di pensiero non rimane chiuso all’interno dell’equipe curante ma si confronta con il paziente stesso e la sua famiglia. Questo aspetto, troppo spesso sottovalutato anche dagli stessi operatori, permette la creazione di quella alleanza terapeutica che è spesso decisiva nei percorsi di cura ed assistenza.

Definire il PAI come strumento di sintesi diventa dunque un errore perché il  documento che viene elaborato oltre a contenere una valutazione dei bisogni del paziente, contiene gli obiettivi, gli strumenti e tempi di verifica. Esso dunque appare come strumento dinamico capace di adattarsi alle variazioni delle condizioni generali del paziente sebbene esso non debba essere influenzato da condizioni morbose acute a meno che esse non provochino un cambiamento cronico nel paziente.

Purtroppo esiste una divaricazione tra le intenzioni reali  del PAI e la pratica quotidiana nelle strutture residenziali.

Questa divaricazione, con conseguente annientamento delle potenzialità dello strumento, ha molte cause.

Il PAI essendo stato inserito nella burocratica macchina dell’accreditamento ha perso le sue potenzialità “cliniche – assistenziali” divenendo un obbligo per l’equipe che si ritrova a letteralmente a compilare i moduli. L’obbligatorietà legata alle visite ispettive delle Commissioni di Vigilanza provocano una rincorsa nelle sua stesura con una conseguente relativa attendibilità rispetto ai bisogni del paziente. Non è un caso che le stesse Commissioni trattino l’argomento dal punto di vista formale senza entrare mai nel merito organizzativo delle riunioni PAI, nel metodo di confronto, nel testo dell’elaborato. Eppure quell’elaborato, che resta spesso a prendere polvere dentro qualche armadio in attesa del rinnovo o in qualche nascosto file di software di gestione, dovrebbe permettere a qualunque operatore di saper inquadrare il  paziente e collaborare sin da subito al raggiungimento degli obiettivi. Invece ci si limita a verificare l’effettiva elaborazione, i rinnovi nei tempi stabiliti e le firme di chi ha redatto il documento.

Questa visione da parte degli organi di vigilanza è solo uno dei motivi per cui il PAI non è ad oggi uno strumento di esercizio dell’equipe.

Alla miopia degli Organi di Vigilanza bisogna sommare la scarsa preparazione degli operatori. E’ inutile negare un’evidenza che tendiamo a sottostimare: gli operatori, tutti dal medico all’animatore, non sono sufficientemente preparati ad elaborare un PAI. La scarsa preparazione porta con se una radicata convinzione che il PAI sia un atto burocratico da svolgere, spesso nei ritagli di tempo di un turno e senza quello spazio di pensiero necessario per focalizzare il proprio sapere sul paziente.

La colpa, ammesso che sia corretto parlare di colpe, è dei corsi di formazione che non mettono nei loro programmi adeguati approfondimenti sull’argomento con il risultato di un elaborato privo di quel dinamismo capace di contribuire in maniera decisiva alla qualità dell’assistenza.

Altro, di tanti motivi, è indubbiamente il cambiamento dell’utente ricoverato nelle RSA. In questi ultimi 10 anni si è assistito ad un aumento dei carichi di lavoro con un livello di assistenza sempre medio-alto che impone pochi spazi per rimanere seduti in una stanza a “pensare”. Accanto a questo si è assistito ad una rimodulazione delle ore di assistenza inversamente proporzionale agli stessi carichi di lavoro. Operare sempre in condizioni di livelli minimi di assistenza ha ridotto ulteriormente la presenza di personale, in strutture spesso affidate in gestione esterna con pochissimi se non nulli spazi da poter impiegare in questa prestazione.

Questi tre macro-motivi inducono ad avere un atteggiamento pessimista e definire la questione PAI un fallimento. Mi urge ricordare che il pessimista è un ottimista con esperienza.

Ammettere che il PAI è un fallimento, al netto di sacche di eccellenza dove lo questo strumento è adoperato in maniera corretta,  sarebbe il primo passo per avviare una riforma dello stesso, attraverso un percorso di rielaborazione in funzione davvero dell’assistenza erogata.

Uscire dal dibattito filosofico sarebbe un primo passo per poter cominciare una vera discussione all’interno della nostra categoria professionale, portando una visione propria.

Dal momento che non è corretto criticare senza portare proposte, eccone alcune:

  • Costituire un gruppo di lavoro a livello nazionale che valuti in maniera obiettiva l’esercizio del PAI nel Socio Sanitario
  • Elaborare una proposta di cambiamento dell’elaborazione del PAI tenendo presente che la vita in comunità non è necessariamente una vita di malattia o di disagio
  • Elaborare uno strumento dinamico che sappia affrontare le fasi acute del paziente, spesso quelle a maggior rischio di disabilità, come ad esempio il Piano di Cure Anticipato usato dai colleghi delle Cure Palliative.

In attesa di altre eventuali proposte, invito IPASVI a prendere in seria considerazione questa mia proposta che darebbe nuova spinta e valore all’attività infermieristica nelle RSA.

Piero Caramello

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