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Non siamo angeli della morte!

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Non siamo “angeli della morte”!!

La grandissima maggioranza degli infermieri italiani, come si può facilmente osservare attraverso una quotidianità che mostra la buona sanità che non fa notizia, si impegna con costanza e dedizione nello stare vicino ai pazienti che vengono loro affidati, all’interno di quella dimensione di solidarietà, cura ed assistenza, che è propria di noi professionisti della salute.

Purtroppo ogni cesto ha la sua mela marcia e negli ultimi anni sono stati decisamente troppi i casi che hanno visto coinvolti degli infermieri, nell’utilizzo improprio di farmaci, che avrebbero poi condotto alcuni pazienti ad una morte prematura.

Da questi casi, specifici ed isolati, prendiamo le debite distanze condannandoli ed esprimendo solidarietà e vicinanza ai familiari, che sono stati privati dei loro affetti, ma il pericolo estremamente grave che da questi casi potrebbe innescarsi è l’entrare in un’ottica di “caccia alle streghe” dove l’unica cosa importante è non solo trovare il capro espiatorio dove non c’è, ma a tutti i costi mettere insieme le fascine di frassino per poter preparare il rogo.

Ci sono professionisti, seri e coscienziosi, che altro non fanno se non lavorare con senso di responsabilità, sino al momento in cui un evento sfortunato, riesce a cancellare anni di lavoro svolto nel massimo rispetto di quelle che comunemente vengono definite le buone pratiche clinico-assistenziali.

Questo è quanto potrebbe essere accaduto ad una collega che in questi giorni si è vista rinviata a giudizio, per omicidio colposo, a causa della somministrazione di una fiala di morfina (10 mg) fatta su prescrizione medica, una sola ed unica volta, per via sottocutanea, ad una paziente gravemente malata e caratterizzata da un quadro clinico che ovviamente giustificava tale somministrazione.

Ci domanderemo da oggi in avanti in quale modo possiamo sentirci tutelati nel nostro agire corretto e scrupoloso, se basta veramente così poco per subire il peso di un processo e l’esposizione pubblica del nostro nome, come colui che è sospettato di aver commesso un crimine.

Ci domanderemo se veramente fra personale sanitario e familiari si concretizza quello stare dalla stessa parte, per il bene del nostro assistito, oppure se invece si cerca a tutti i costi il trovare quella lacuna che a giudizio di inesperti, costituisca l’elemento attraverso il quale si concretizza un danno, dal peso giuridico di un macigno se arrecato con negligenza, imperizia e imprudenza.

Attenderemo con particolare apprensione il processo, desideriamo capire cosa nel dettaglio possa aver spinto la motivazione di un’accusa così pesante, a chi oggi continua a lavorare facendosi carico delle responsabilità implicite nel proprio operato, con l’aggiunta di questo nuovo peso a livello psichico e morale.

Quanto accaduto alla nostra collega interessa tutti noi, perché quell’evento poteva accadere a chiunque si fosse trovato in quel particolare frangente, per poi vedersi oggi rinviato a giudizio per omicidio colposo.

Dario Porcaro

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