Nel dibattito di questi giorni si vanno delineando all’interno della compagine professionale che si esprime online più schieramenti
Andiamo con ordine.
Il primo schieramento è costituito da quanti hanno una visione arcaica della recente vicenda di Monza (nella quale un infermiere è stato al centro di un dibattito circa il mancato compimento di mansioni domestiche alberghiere) e un approccio di tipo tradizionale all’assistenza.
Questi operatori sanitari si esprimono con impulsività, spesso per luoghi comuni, tendendo a non approfondire le tematiche legate all’evoluzione professionale, della quale dimostrano di non essere pienamente consci.
Il web permette la libera espressione di ogni genere di idea ma talvolta il problema non è insito unicamente nel contenuto ma anche nella forma, molto raramente apprezzabile.
Essi si scontrano quotidianamente con un altro schieramento, quello composto dai difensori del dettato normativo nonché delle decisioni giurisprudenziali ree di aver delineato, negli ultimi trent’anni, un’immagine di infermiere moderno, non più subordinato tramite catene (il vecchio mansionario …) ad altri professionisti. Non più ausiliario bensì libero. Quest’immagine è, come sappiamo, lontano dall’affermarsi nella pratica quotidiana – complice un sistema che relega gli operatori sanitari a meri esecutori privandoli della possibilità di esercitare la loro autonomia. E sarebbe proprio quest’autonomia a renderli professionisti.
Perché?
Perché non c’è responsabilità senza autonomia. Ogni persona è capace di rispondere dei suoi atti unicamente se è stata lei a determinarli tramite l’esercizio della propria capacità di giudizio, tramite le scelte che compiute, le quali comportano sempre un rischio intrinseco. Chi si sia trovato a lavorare in qualità di libero professionista – anche solo per un breve periodo – sa cosa vuol dire prendere decisioni in totale autonomia di fronte alle richieste di un cittadino. In tale occasione avrà probabilmente avvertito sulle proprie spalle l’importanza del dover rispondere a qualcuno (il paziente) di qualcosa (la strategia assistenziale stabilita).
In effetti, “rispondere di” è uno dei due aspetti che caratterizzano il concetto di responsabilità. “Rispondere di” significa essere responsabili dal punto di vista giuridico, essere imputabili.
Ma c’è un’altra forma di responsabilità: “rispondere a”. Ci troviamo qui in campo etico, laddove essere responsabili comporta il farsi carico di qualcosa o di qualcuno.
“Rispondere di” non è più importante di “rispondere a”, né viceversa.
Le due facce della responsabilità dialogano e soprattutto crescono vicine, si costruiscono insieme.
Non è possibile comprendere di cosa si è responsabili in quanto professionisti senza lo studio approfondito della normativa in merito, la lettura delle sentenze e l’analisi delle stesse con i colleghi. La nostra professione è stata attraversata da profondi mutamenti che ne hanno determinato un’incertezza accentuata dall’eterogeneità di esperienze e dalle differenze generazionali; in tale caos la legge viene a rappresentare la cornice all’interno della quale muoversi, un importante punto di riferimento, un’àncora.
Come afferma Hannah Arendt nel suo testo “Responsabilità e giudizio”, “lo scaricabarile delle responsabilità, uno scaricabarile pressoché automatico nelle società moderne, trova sempre un punto d’arresto sulla soglia del tribunale”. La filosofa specifica inoltre che la grandezza del diritto consiste proprio nel costringere le persone a focalizzare l’attenzione sull’individuo, sulla persona, anche in un’epoca segnata dalla società di massa, in cui tutti si considerano ingranaggi di una grande macchina, di un gigantesco apparato burocratico e, pertanto, nessuno si sente chiamato realmente a rispondere di ciò che fa.
In tal senso si comprende come la posizione di chi pone in primo piano il diritto non sia affatto antitetica rispetto al concetto di umanità inteso come premura dell’altro, ma ne sia anzi un’esplicazione: nel caso della professione infermieristica, infatti, è proprio il rispetto delle norme a garantire al cittadino un’assistenza adeguata.
In tal modo imparare a “rispondere di” significa arrivare a “rispondere a”; c’è da premettere, però, che soltanto chi avverte la necessità di “rispondere a” si applica nell’essere capace di “rispondere di”, cioè soltanto chi comprende l’importanza di erogare un’assistenza congrua e giusta, rispettosa della dignità del cittadino, si impegna a studiare la normativa che regolamenta la propria professione e diventa insofferente di fronte alla sua disapplicazione.
Ma torniamo ora all’origine di questa riflessione, poiché ho dimenticato un terzo schieramento.
I silenziosi.
I silenziosi sono quelli che inneggiano al silenzio, coloro i quali predicano l’assenza di confronto come miglior approccio; essi credono che una comunità di professionisti debba discutere unicamente di esperienze positive, che siano da stimolo, evitando di affrontare i problemi. Insomma,i panni sporchi non si lavano nemmeno in famiglia!
Tali professionisti si trovano a due estremi: o sono già arrivati all’apice della carriera, dunque disinteressati alla “base”, al “popolo” (altrimenti nominato con altri vezzeggiativi … ) oppure, al contrario, sono totalmente inconsapevoli, avulsi da qualsiasi riflessività (lavorano per arrivare a fine mese).
In mezzo c’è chi ama il contraddittorio educato, le parole espresse con garbo all’insegna dell’ascolto reciproco, nel tentativo di camminare insieme verso un futuro più roseo per gli infermieri e, quindi, anche per i cittadini.
Perché non c’è salute senza infermieri preparati e competenti e ogni tanto vale la pena ricordare che bisogna lottare per difendere la salute di tutti.
Forse anche sentendosi più responsabili.
Daniela Pasqua
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