Gli infermieri che debutteranno in molte realtà scolastiche italiane non avranno solo il ruolo di prevenzione e cura, ma anche quello di gestire i lutti che hanno inevitabilmente interessato decine di migliaia di famiglie italiane a causa della pandemia di Covid-19.
L’articolo pubblicato su “La Stampa” ha fornito maggiori particolari riguardanti questa iniziativa:
«Abbiamo deciso di partire con un corso che parla di morte. Una delle cose più rilevanti della nostra vita». Il primo appuntamento alle 9 di mattina di sabato prossimo.
Cento faccine su uno schermo di computer. Non è il solito webinar, ma la prima lezione del primo corso di una nuova scuola, diversa e speciale. La scuola si chiama «Capitale sociale» e il corso è intitolato «La condivisione sociale del lutto da coronavirus».
Patrocinato da Croce Rossa e Federazione cure palliative, oltre che da altre associazioni e fondazioni impegnate nella cura e nell’assistenza ai malati, il corso si articola in tre filoni: il lutto, il rito funebre, la cura.
Cento iscritti, numero massimo previsto.
Un terzo sono operatori sanitari, il 16% volontari, l’8% esponenti di associazioni, il 10% persone che hanno subito un lutto nella pandemia. C’è persino qualche operatore di agenzie di servizi funebri, anche per loro la pandemia ha cambiato tutto. Cosa sperano di ottenere da un corso così originale? Le risposte nel questionario compilato dopo l’iscrizione: il 40% maggiore consapevolezza sui temi, l’11% indicazioni per orientarsi sul senso del rito funebre, il 30% competenze relazionali sulla fine della vita.
Spiega Marina Sozzi, bioeticista tanatologa e curatrice del corso: «Eravamo abituati a malattie croniche e lente, pensavamo che quelle acute fossero ormai riservate al terzo mondo, estranee all’Occidente. Il che ci dava un rapporto rassicurante con la morte, che il Covid ha sconvolto. Anche da qui nasce il forte processo di negazione della pandemia. Ma chi ha avuto parenti morti ha vissuto un dramma aggiuntivo: divieto di entrare negli ospedali, negli hospice e nelle Rsa, impossibilità di vedere i cari morti, persino di celebrare i funerali».
Dinamiche che suscitano nuove domande sia nelle persone che hanno a che fare con la malattia (e con la paura di essa), sia in chi la gestisce ogni giorno per ragioni professionali. Ciò spiega la partecipazione al corso di medici, infermieri, volontari di strutture di assistenza e cura, al pari di persone comuni.
La scuola segue il metodo della Open Space Technology: niente lezioni frontali e linguaggio accademico, ma condivisione partecipativa ed esperienziale. Non c’è un professore, solo persone che prendono la parola e introducono temi e istanze di riflessione, aiutati da un gruppo di facilitatori. Specialisti e non si confondono.
Titolo della prima lezione: «Di cosa abbiamo bisogno per commemorare i nostri cari morti durante l’epidemia di Covid-19?».
Si comincia. Nicola chiede idee per ripensare la funzione funebre. Simona come gestire i contatti personali in assenza di fisicità. Mariel come trovare nuovi simboli per le relazioni in una società non abituata alla relazione simbolica. Stefania vuole sapere come curare quando è difficile curare, citando l’impatto psicologico con le aree Covid degli ospedali interdette ai parenti. Guidalberto sottolinea la «paralisi emotiva» creata da immagini come quella delle bare trasportate dai camion militari. Claudia si interroga su come rompere il tabù della morte. Letizia vuole approfondire la necessità di non morire da soli. Marco si sofferma sulla voglia sociale di dimenticare. Margherita sulla regressione cognitiva legata al lutto. Daniela sull’incapacità di trovare le parole per condividere tra operatori sanitari questo tipo di morte «a cui non eravamo abituati e che richiede una formazione nuova per medici e infermieri».
Dopo un primo giro di mezz’ora, ogni istanza viene discussa per un’ora e mezza in un «giardino virtuale» gestito da un facilitatore.
Si può anche saltare da un giardino a un altro, poi ci si ritrova per condividere le conversazioni, mentre si comincia a redigere un report poi messo a disposizione di tutti, in attesa delle seconda «lezione».
Il corso inaugura una nuova scuola di formazione, denominata «Capitale sociale» e pensata durante il lockdown «per ripartire ma non come prima» da Iolanda Romano (manager, già commissaria per il Terzo Valico), Ugo Biggeri (presidente di Banca Popolare Etica) e Lorenzo Fazio (editore, fondatore di Chiarelettere). Una «scuola pratica di nuovi mestieri» per indicare alle istituzioni «il cambiamento verso la sostenibilità e l’equità». Gli altri corsi della prima fase riguardano finanza etica, innovazione sociale, lavoro condiviso, didattica scolastica a distanza. Docenti raramente accademici: dal manager Pierluigi Celli al climatologo Luca Mercalli, dal magistrato ed ex commissario dell’Autorità anticorruzione Michele Corradino al cofondatore di Sardex (azienda innovativa del settore FinTech che ha istituito dieci anni fa la prima moneta alternativa) Gabriele Littera. Destinatari, in primis, professionisti, giovani diplomati e neolaureati. Finanziamento in crowdfunding, con un evento pubblico online il 25 settembre. Per raccogliere soldi (finora, in pieno agosto, coperto metà del budget) e provare a «cambiare se stessi per cambiare il mondo». Alla faccia del virus.
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