Una lettera che, da professionista sanitario e da cittadino italiano, mi sono sentito in dovere di scrivere al Ministro Lorenzin; in seguito ad una serata passata al pronto soccorso insieme a mia madre malata di polmonite.
Spett.le Beatrice Lorenzin, Ministro della Salute…
non riesco ad iniziare questa lettera in nessun altro modo; se non con una domanda retorica, per certi versi scontata, che mi straripa frustrazione ad ogni sillaba:
Noi operatori sanitari e soprattutto noi cittadini, ci meritiamo veramente tutto questo?
Sono un infermiere, anzi, un dottore in infermieristica (è meglio sottolinearlo, in un paese dove, per tanti motivi, la categoria che rappresento è vista dai più come una mandria di ignoranti e di sguatteri); ma oggi Le scrivo come semplice cittadino.
Perché ciò che ho vissuto e che sto vivendo in queste settimane insieme a mia madre, che purtroppo ha avuto la sfortuna di ammalarsi di polmonite, ha veramente del tragicomico/demenziale.
Peccato, però, che neanche in un istante, di questa nostra piccola Odissea, ci sia venuto da ridere…
Venerdì sera, dopo più di un mese dall’inizio della sua malattia, sono stato costretto a riportare mia mamma al Pronto Soccorso.
Proprio non volevo intasare i già tanto martoriati dipartimenti di emergenza e accettazione, ma… non ho avuto alternative. Perché? Beh… In breve:
Un mese fa, in seguito ad una crisi respiratoria (mamma è asmatica da tempo), l’ho portata all’Ospedale Pertini di Roma.
Lì, dopo ore e ore di attesa in pronto soccorso, è stata visitata e le è stata diagnosticata una polmonite bilaterale.
In tutta Roma, però, non c’era neanche un posto letto disponibile, per poterla curare. Così le opzioni sono state due: farla rimanere in barella, nel corridoio del pronto soccorso, per chissà quanti giorni o… accettare l’unico posticino letto rimediato presso una ‘clinicuccia’ convenzionata in zona Roma Nord.
Logicamente avrei preferito far restare mamma in un Ospedale vero, ma… l’idea di vedere la donna che mi ha dato alla luce e che mi ha cresciuto con così tanto amore buttata in un corridoio; su una barella minuta, sporca e scomoda, in condizioni igienico sanitarie al limite della follia, senza possibilità di lavarsi o di sistemarsi, con anziani confusi ed urlanti in ogni dove, senza nulla a garantire la sua privacy e con un andirivieni continuo di camici, divise e parenti in un totale e perpetuo caos, mi ha spinto a farle accettare il trasferimento.
Così, mamma ha poi passato due settimane nel reparto di medicina di quella ‘clinicuccia’. Inutilmente, però. Già, perché il suo quadro polmonare (TAC alla mano) non è affatto migliorato. Perché? Bella domanda…
“La situazione polmonare di sua madre non migliora, la terza TAC è praticamente uguale a quella di due settimane fa. E non possiamo utilizzare farmaci come Ceftriaxone e/o Ciprofloxacina, visto che è risultata essere allergica a uno dei due, anni fa, da come leggo in cartella”, mi ha spiegato il primario.
“Capisco. Ma… non siamo in un ambiente protetto, qui?
Non ci sono antibiotici più potenti, rispetto a quelli generici che le state somministrando ora (Augmentin) e che potreste infonderle sotto stretto controllo, onde prevenire o trattare tempestivamente qualsiasi reazione di tipo allergico?”
“Guardi, qui l’anestesista non è sempre presente. E noi, senza di lui, non possiamo assumerci una responsabilità di questo tipo”.
“Quindi cosa mi consiglia? Di farla firmare e di portarmela via?”.
“Qui potremmo tenerla per qualche altro giorno, ma… Le consiglio di portarla di nuovo nel pronto soccorso di un ospedale.”
Che in quella casa di cura non funzionassero i termometri, non fossero disponibili molti farmaci, ci fossero operatori socio sanitari che facevano gli infermieri (e viceversa), mancassero addirittura i cuscini e ci fossero molti altri problemi assai goffi è un altro discorso, ma…
…come diavolo è possibile che un ospedale pubblico invii i propri pazienti presso questi fatiscenti Motel travestiti da cliniche convenzionate che, di fatto, non sono in grado di curarli?
Comunque… ho riportato mamma a casa e mi sono consultato col mio medico di base, persona di cui (ringraziando Dio) mi fido molto.
Lui mi ha consigliato una visita a pagamento in “Intramoenia”, presso uno pneumologo con molti anni di esperienza e che lavora qui a Roma.
“Abbiamo risolto”, ho rassicurato finalmente mia madre.
“Vedrai che questo professionista ti visiterà presto, se necessario ti farà un foglio di ricovero e troveremo così il modo di curare in un ospedale vero, finalmente, questa benedetta polmonite”.
Tutto risolto? Ma che… ho provato ad effettuare diverse telefonate, ma la prima visita intramoenia disponibile sarebbe stata dopo due settimane.
Ho comunque prenotato, ma… purtroppo, dopo due giorni esatti dalla dimissione “forzata” dalla clinicuccia, mamma ha ricominciato a tossire, a respirare a fatica, ad avvertire un continuo senso di oppressione toracica ed è ritornata la febbre.
Così sono stato costretto a riportarla presso un altro Pronto Soccorso. Quello del Policlinico di Tor Vergata di Roma, stavolta.
Appena arrivati, alle 20:30 esatte, ci siamo trovati di fronte ad un’autentica bolgia: gente che litigava, che urlava, che minacciava le guardie giurate presenti e che cercava disperatamente gli infermieri di triage per ottenere un qualche codice di priorità per essere visitata. Già, perché il bancone era deserto. E lo è stato per molto tempo…
Intanto io ho sistemato mamma (che oltre tutto ha anche una distorsione ad una caviglia) su una sedia a rotelle, le ho posto sul viso una mascherina per filtrare l’aria ed abbiamo atteso con pazienza.
Una pazienza infinita. Forse troppa.
Eravamo tante persone, lì in fila, ad attendere che un qualsiasi professionista sanitario ci desse un qualche segno della sua presenza.
Girava voce che fossero arrivati due codici rossi insieme; che ci fosse un bimbo che non smetteva di vomitare, che un ragazzo con un gomito lussato stesse mettendo a ferro e fuoco le sale di triage per il dolore, ma… 50 minuti senza vedere un infermiere di triage, in attesa, lì davanti al bancone, sono stati davvero troppi. Perché solo alle 21:15, finalmente, dopo un lunghissimo cambio turno, un infermiere è tornato.
Mamma intanto tossiva, si inclinava col busto in avanti per respirare meglio, iniziava a stare scomoda, stava tornando la febbre, mi chiedeva costantemente se fosse stato il caso di dirigerci verso un altro ospedale.
L’infermiere di triage era da solo. Una volta registrato ogni paziente ed assegnatogli il codice di priorità, si recava con lui in sala per prendergli i parametri vitali e… per un motivo o per l’altro, non ritornava più.
“Ma dove va?!”, chiedeva la gente incredula e spazientita. “Come fa a stare da solo qui fuori, se poi ad ogni accettazione deve andare anche dentro?”. E uno dei vigilantes, il più anziano, allargando le braccia con fare rassegnato: “Signori miei, avete ragione. Ma è da solo e non può fare altrimenti. Qui tagliano, tagliano e tagliano di nuovo. Così siamo ridotti all’osso. Da quando lavoro qui ne ho viste davvero tante, ve l’assicuro… molti cambiamenti ci sono stati e avrebbero dovuto esserci, ma… non è migliorato mai niente. Non ve la prendete con gli infermieri che vedete correre da tutte le parti… loro non hanno nessuna colpa”.
Finalmente, alle 21:40, mia madre è stata registrata, le è stato assegnato un codice giallo ed è entrata in sala col sanitario. Alle 21:40. Ovvero dopo ben 70 minuti esatti dal nostro arrivo in pronto soccorso… 70 minuti!
L’ho rivista nel corridoio del pronto soccorso, mamma, dopo circa mezz’ora. Non avrei potuto intrufolarmi lì dentro, ma… con la scusa di portarle una bottiglietta d’acqua, così come facevano tutti gli altri parenti presenti, l’ho raggiunta per assicurarmi che stesse bene.
Siamo stati poi lì, insieme, in attesa della visita, per almeno un paio d’ore. Non molto, per fortuna. Ed è lì che ho assistito all’ennesimo, classico, triste capitolo di una sanità che non funziona quasi più; e che anche Lei, Ministra, oramai conoscerà benissimo, visto che è all’ordine del giorno in molti nosocomi italiani: pazienti su lettighe e sedie a rotelle in ogni angolo dei corridoi; personale d’ambulanza che vaga in stato quasi confusionale in attesa delle barelle senza cui non possono tornare in servizio; tanti anziani stanchi, confusi, doloranti ed urlanti, in attesa da più di nove ore per un ricovero da qualche parte, che non arriverà.
Colleghi infermieri che vagano di corsa a destra e a manca, per smaltire una mole di lavoro troppo grande per il loro esiguo numero; studenti infermieri che, ben lontani dal poter anche solo pensare di raggiungere i reali obiettivi del loro tirocinio clinico, vengono utilizzati come pura e semplice manovalanza (trasporto malati, barelle, chiusura ROT, ecc.) per sopperire alla mancanza cronica ed irreversibile di personale.
Ad un certo punto mi sono sorpreso a guardare, piuttosto intenerito, una signora anziana malata di Alzheimer, che lamentava tanto dolore alle gambe. “È qui in barella dalle 15. Ha anche la diarrea. Sono ore che chiedo se qualcuno può cambiarla o darmi qualcosa per farlo, ma nessuno qui ha il tempo di darmi retta, a quanto pare”, mi ha sussurrato il figlio con una rassegnata stanchezza.
“Lo capisco, la sanità è in ginocchio, ma… non posso far stare mia mamma così. è assurdo”.
È mentre parlavo con lui, instancabile ed ammirabile consolatore della sua confusa e dolorante mamma, che hanno scandito dalla sala 1 il cognome di mia madre.
Così, quasi increduli, siamo entrati per la visita. Dopo aver spiegato al dettaglio la nostra odissea al medico di turno, stoltamente le ho domandato: “Dottoressa, mi scusi, ma… c’è la possibilità per un ricovero in un reparto?”. Lei ha continuato a scrivere, scuotendo la testa e pronunciando un definitivo ed inesorabile : “Assolutamente no. Mi dispiace, ma è così. Però dobbiamo trattenere qui sua mamma. Ha senza dubbio bisogno di vari approfondimenti e di una terapia piuttosto aggressiva qui in ospedale”.
“Ok, ma… dove? Qui in corridoio? E su una carrozzina? Per quanto tempo?”
“Guardi… nel giro di qualche ora provvederemo a posizionarla su una barella, questo mi sento di prometterglielo. E poi, con molta probabilità, domattina verrà trasportata in Osservazione Breve. Lì verrà trattata verosimilmente per qualche giorno, ma… per il resto, in tutto il Lazio, non ci sono posti letto.”
E così, cercando di tranquillizzare mamma a proposito di un possibile (ma alquanto improbabile) ricovero in reparto, l’ho posizionata con la sua carrozzina in un posto un po’ appartato, lontano dai forti odori e dai tanti rumori molesti; le ho comprato qualcosa da sgranocchiare e due bottigliette d’acqua ai distributori automatici della sala d’attesa, le ho messo il telefono in carica alla prima presa di corrente disponibile, le ho dato un bacio e… visto che erano le 00:30 e non potevo più fare nulla per lei, l’ho salutata.
“Vai, Ale. E stai tranquillo. Oramai, qui in Italia bisogna solo pregare di non ammalarsi… lo sappiamo da tempo”, mi ha detto. Ed è questa sua frase, pregna di rassegnazione che, da sanitario, da cittadino e da figlio, mi ha dato il colpo di grazia.
Perché ha pienamente ragione, purtroppo.
L’ho lasciata lì, su quella scomodissima sedia a rotelle, mia madre. Dove, dopo diverse ore, i miei colleghi professionisti sanitari, tra una corsa e l’altra, hanno iniziato a combattere la sua polmonite con farmaci adeguati (Halleluia!) e potenti, finalmente. Ed è stata anche fortunata, mamma: non c’è alcuna speranza, per lei, di arrivare nel letto più o meno comodo di un reparto di degenza, ma… stamattina le hanno dato una barella. Un sogno, dopo tante ore di carrozzella. E sarà lì, chissà fino a quando.
Spett.le Beatrice Lorenzin, Ministro della Salute…
non riesco a terminare questa lettera in nessun altro modo, se non con la stessa domanda retorica, per certi versi scontata, con cui l’ho iniziata: noi operatori sanitari e soprattutto noi cittadini, ci meritiamo veramente tutto questo?
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