Si è concluso con numeri preoccupanti il mandato da ministro della Salute di Jeremy Hunt.
– 12% nell’ultimo anno.
– 40% negli ultimi tre anni.
Un totale di 5mila iscrizioni in meno rispetto al 2017.
Il fallimento era prevedibile ed era stato ampiamente annunciato: la decisione del Governo inglese, adottata nel 2016, di tagliare le bursaries (le borse di studio), per gli studenti universitari, rimpiazzandole con loan (prestiti bancari onerosi) non poteva produrre altro risultato che rendere molto meno appetibile la professione infermieristica per i giovani britannici e causare un tracollo delle iscrizioni nelle facoltà di nursing.
Si conclude così, con i gelidi numeri di questo drammatico tonfo, l’incarico di Jeremy Hunt (foto) in qualità di Secretary of Health, il più lungo nella storia del Regno Unito. A seguito delle polemiche legate alle trattative sulla Brexit, scaturite nelle dimissioni dei ministri Boris Johnson e David Davis, “falchi” dell’uscita senza concessioni dall’Unione Europea, il successivo rimpasto deciso da Theresa May ha visto avvicendarsi al dicastero degli Esteri proprio Hunt, a sua volta rimpiazzato al Department of Health dal giovane parlamentare Matt Hancock.
Se il ministero di Hunt, oltre a essere il più longevo nella storia britannica, è stato anche uno dei più criticati, la mossa decisa da Downing Street non ha fatto esultare nemmeno i più accaniti detrattori. È anzi emersa, con immediata evidenza, l’ennesima contraddizione di un Governo Tory che, nelle intenzioni, si è sempre mostrato saldamente legato ai tradizionali principi e valori dell’economia e della società britannica, ma ha spesso agito in aperto contrasto con quanto dichiarato.
Cosa c’entrano gli infermieri in tutto questo? Lo vedremo tra un attimo, iniziando proprio dalla Brexit e dal balletto di poltrone ministeriali. A tale proposito, la notizia della nomina di Hancock a nuovo Secretary of Health, giunta quando si erano appena concluse le celebrazioni per la ricorrenza del 70esimo anniversario dalla nascita dell’NHS, il 5 luglio scorso, ha prodotto lo stesso effetto di un clown cattivo che buca tutti i palloncini dei bambini, durante la festa di compleanno.
Tra i finanziatori della campagna elettorale del nuovo ministro, infatti, risulta anche, con un contributo di 32mila sterline, l’Institute of Economic Affairs, think tank da sempre convinto sostenitore della necessità di privatizzare il servizio sanitario britannico, adeguandolo a quelli basati su un impianto assicurativo, come in Germania o negli Stati Uniti. Considerando il retroscena, stonano allora le affermazioni rese all’indomani della nomina da Hancock, dichiaratosi “innamorato dell’NHS” e “ammiratore dello staff”.
Hanno inoltre suscitato larga eco le dichiarazioni rese nei giorni scorsi da Theresa May in relazione ai negoziati con l’Unione, relativamente all’accoglienza che il Regno Unito riserverà ai nuovi immigrati in arrivo dall’Europa. Il primo ministro ha infatti annunciato di voler stringere le maglie per chi arriverà dopo la Brexit “all’avventura”, cioè nella speranza di trovare un lavoro, ma senza disporre di qualifiche o titoli, mentre lascerà le porte aperte ai professionisti, incluse (cito la pessima traduzione italiana, riportata sulle testate giornalistiche) “le infermiere”.
La fatidica data del 28 marzo 2019, pertanto, non dovrebbe segnare, per i professionisti della sanità immigrati in UK dai 27 Paesi UE, alcuna sostanziale modifica. Basterà che anche i nuovi arrivati assolvano l’obbligo di registrazione con il ministero dell’Interno (Home Office) e, una volta maturati i 5 anni necessari a ottenere il settled status, si potrà godere del diritto a risiedere permanentemente in terra d’oltremanica.
Ma quali incentivi sono stati, di fatto, offerti agli europei per incoraggiarli a preparare i bagagli e a colmare le lacune di un servizio sanitario pubblico che conta oltre 30mila carenze organiche stimate di infermieri nella sola Inghilterra? La risposta è: da un paio d’anni a questa parte, assolutamente nessuno.
Non solo. La determinazione, a partire dal gennaio 2016, di criteri estremamente rigorosi e selettivi per il conseguimento delle certificazioni linguistiche IELTS e OET, ai fini dell’iscrizione al Registro NMC, ha zavorrato le speranze di molti giovani infermieri recatisi in terra d’Albione, costretti adesso, nella migliore delle ipotesi, a lavorare per molti mesi come healthcare assistant (operatore di supporto), nell’attesa di superare gli impegnativi test.
Ciliegina sulla torta, mentre italiani, spagnoli o rumeni si trovano talvolta costretti a pagare di tasca propria corsi ed esami di lingua, il Governo inglese stringe accordi per importare migliaia di infermieri dalla Giamaica, e le agenzie di recruitment offrono incentivi di ogni genere ai colleghi filippini, compresi persino alloggi e voli aerei rimborsati.
Si dirà: una volta ottenuta la fatidica iscrizione al Registro NMC (il famoso PIN number), si aprono però ampie prospettive di carriera, con una retribuzione nettamente superiore a quella italiana, adesso ulteriormente irrobustita dall’aumento del 6.5% in tre anni contenuto nel nuovo pay deal, l’accordo salariale proposto dal Governo ai dipendenti NHS e da poco approvato dai sindacati in Inghilterra e Galles. Considerazioni corrette, che però non tengono conto di tutte le possibili sfaccettature, in primo luogo quelle legate alla qualità del lavoro.
L’incremento nella domanda di servizi sanitari ha infatti acuito i vuoti organici, specie nel servizio pubblico, iniziando a far emergere il problema del demansionamento – per quanto non sia affatto percepito ancora come tale – , nonché causando un costante peggioramento nel rapporto infermieri-pazienti, evidente soprattutto nelle winter crisis, i sovraffollamenti divenuti ormai costanti nel periodo a cavallo delle feste natalizie, con lunghe file di degenti accomodate per ore su barelle, nei corridoi dei pronto soccorso.
Proprio per frenare una pericolosa deriva verso una perenne crisi di personale infermieristico, sempre Hunt e sempre nel 2016, decise di introdurre nel mercato del lavoro la nuova figura del nursing associate, equivalente al nostrano Oss con formazione complementare. Attraverso corsi di formazione biennali, 12mila nuovi professionisti, iscritti anch’essi nel Registro NMC e autonomi nel loro ambito di competenza, affiancheranno, entro il 2019, gli infermieri britannici. Una misura destinata, in teoria, a sottrarre questi ultimi dall’assistenza di base e a favorire la loro più agevole progressione verso competenze specialistiche e avanzate, ormai ampiamente riconosciute e valorizzate non solo in ambito manageriale, ma anche dagli stessi medici.
In un documento pubblicato la scorsa settimana, finalizzato a stabilire criteri di definizione delle piante organiche, lo stesso Royal College of Physicians, la più antica istituzione rappresentativa della professione medica in UK e nel mondo, ha infatti evidenziato come “gli stereotipi culturali su medici e infermieri debbano essere superati”, in quanto la medicina è diventata più complessa e sofisticata; “i percorsi di cura devono fronteggiare sempre più spesso il problema della carenza di personale medico”, e quindi la collaborazione appare sempre più come una necessità, così come l’affiancamento e il task shifting di competenze tra nurse practitioners e junior doctors, gli specializzandi.
Un’attestazione di stima, insomma, legata senza dubbio agli ottimi outcomes registrati nei circa tre decenni di operatività del ruolo del practitioner, ma sempre legata al tema della carenza di figure mediche e della necessità di tamponarla, estendendo parte delle competenze ad altri professionisti. Lo stesso tema, insomma, che ha caratterizzato la genesi, sul fronte infermieristico, del nursing associate.
Anche i medici di Sua Maestà non hanno vissuto anni facili, durante il dicastero Hunt. Il rinnovo del contratto dei junior doctors, nel 2016, è stato infatti segnato da continui scioperi di massa dei giovani specializzandi. Inoltre, mentre si evidenziano da più parti le gravi lacune di personale medico, centinaia di medici extracomunitari continuano a vedersi rifiutate le domande per la concessione di un visto di lavoro, mentre altri, già residenti in UK, sono perfino soggetti a rimpatri forzati.
Il quadro appare quindi caotico e contraddittorio, con una politica sempre più simile a quella italiana, con la sua abilità nel confondere le carte e agire con sistematica ambiguità, e con intere categorie di professionisti che reagiscono alle novità con rassegnata apatia. Lo ha appena dimostrato proprio il voto degli infermieri sul pay deal, inizialmente giudicato inadeguato e contestato a gran voce sui social media, e poi a sorpresa approvato, lo scorso mese di giugno, con la maggioranza dell’80%, ma con il voto di meno del 30% degli iscritti ai sindacati.
Luigi D’Onofrio
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