Le criticità dell’infezione da HIV nella cura e dal punto di vista clinico dei pazienti sono stati recentemente trattati in una relazione del Prof. Massimo Andreoni, Direttore della UOC di Malattie infettive e Day Hospital, Dipartimento di Medicina, Policlinico Tor Vergata di Roma, in occasione del congresso SIMIT2020.
Come ha spiegato il professore, vedendo i risultati delle terapie, soprattutto dopo l’introduzione degli inibitori dell’integrasi, si potrebbe pensare che non esistano più criticità nel trattamento dell’HIV.
In realtà non è così, infatti, uno studio pubblicato da Ingle e colleghi su Clinical Infectious Disease 2014 ha analizzato il tasso di mortalità dovuta ad eventi non AIDS in una coorte di più di 65mila pazienti con HIV che avevano iniziato la terapia antiretrovirale (ART) tra il 1996 e il 2009. Lo studio ha mostrato che quasi il 60% dei 3.574 decessi osservati non erano dovuti all’AIDS.
Questo dato si correla con il fatto che i pazienti con AIDS presentano numerose comorbidità. E sono proprio queste condizioni coesistenti il principale problema con cui devono fare i conti oggi le persone con HIV, più del controllo viro-immunologico.
Come ha spigato Andreoni, “I pazienti HIV positivi presentano, un rischio circa due volte maggiore rispetto alla popolazione HIV negativa di presentare eventi cardiovascolari, che in qualche modo segnano profondamente la loro vita e possono essere causa di decesso. Quindi, la mortalità di queste persone non è i più correlata all’AIDS”.
Anche i disturbi neurocognitivi e quelli che interessano principalmente la sfera psicologica e psichiatrica, come ansia, depressione, disturbi del sonno e del sistema nervoso centrale possono essere presenti nei soggetti HIV positivi. Così come il rischio di decesso per tumori si avvicina a quello della popolazione generale.
Uno studio pubblicato da Silverberg su AIDS 2020, ha analizzato l’incremento del peso corporeo nei pazienti con HIV.
Durante 12 anni di osservazione, è stato visto che i pazienti con HIV in trattamento con la ART, dopo un primo aumento fisiologico del peso corporeo dovuto all’età e osservato anche nei soggetti sieronegativi, presentano un incremento del peso rispetto alla popolazione di confronto di pari età. Questo fenomeno sembra essere associato anche all’utilizzo degli inibitori dell’integrasi.
L’obesità (definita come un valore maggiore di 30kg per m2) riduce l’aspettativa di vita e insieme all’incremento dei trigliceridi, alla riduzione del colesterolo HDL, all’ipertensione e all’aumento della glicemia a digiuno porta alla sindrome metabolica e a uno quadro infiammatorio alterato, che è già presente nel paziente con HIV.
Andreoni spiega che è possibile affermare che la sindrome metabolica rappresenti in qualche modo un target del trattamento. A questo proposito, lo studio TANGO ha analizzato i parametri metabolici dopo il passaggio da regimi a base di TAF con 3 o 4 farmaci a regimi a due farmaci con DTG/3TC (dolutegravir/lamivudina).
La ricerca ha dimostrato che lo switch alla duplice terapia non modifica l’incidenza della sindrome metabolica nei pazienti HIV positivi.
“Dobbiamo iniziare a ragionare su quelli che sono i meccanismi di senescenza che portano a queste malattie degenerative croniche come la sindrome metabolica, che in qualche modo espone il nostro paziente a tutta una serie di fattori di rischio”, ha spiegato Andreoni.
Uno studio pubblicato da Ceccherini Silberstein nel 2018 mostra che l’HIV rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo della sindrome metabolica tanto quanto il fumo, l’ipertensione, il diabete e l’iperlipidemia.
La ricerca dimostra che la presenza del virus è correlata all’aumento degli indici infiammatori come il rapporto CD4/CD8, l’IL-6 e il fattore solubile CD14. Lo studio START presentato al congresso CROI 2018 aveva sottolineato l’importanza di iniziare il prima possibile la terapia antiretrovirale. Una sotto-analisi di questa ricerca ha dimostrato successivamente che i biomarcatori di infiammazione presenti all’inizio del trattamento erano dei forti predittori di sviluppo di una patologia diversa dall’AIDS che poteva portare il paziente al decesso. Inoltre, anche dopo correzione del singolo fattore infiammatorio per gli altri fattori, il dato rimaneva fortemente evocatore del rischio di mortalità per cause non AIDS correlate.
“Non dobbiamo dimenticare che il virus è presente in tutti i comparti del nostro organismo, soprattutto in quello linfatico. Oggi abbiamo la capacità di individuare quali cellule rimangono cronicamente infette in questo sistema. Sappiamo che queste cellule si trovano in posizioni che in qualche modo sono protette dall’immunità”, ha spiegato il professore.
Uno studio pubblicato da Fletcher su PNAS 2014 ha analizzato la presenza del virus nel tessuto linfatico di 12 pazienti in trattamento con farmaci diversi. Lo studio dimostra che a distanza di 6 mesi dall’inizio della terapia, in alcuni soggetti non vi è alcuna variazione della quantità di virus in questa sede, in altre la quantità di virus aumenta e in altre ancora diminuisce, anche se a livello plasmatico in tutti i soggetti la quantità di virus diminuiva.
Il gruppo di Fletcher ha così iniziato a porsi la domanda se fosse il caso di valutare l’efficacia dei farmaci sul sistema linfatico, piuttosto che analizzare la quantità di virus nel sangue. Lo studio italiano GALT ha voluto analizzare questo aspetto, valutando la presenza del virus a livello del GALT, ovvero del sistema linfatico intestinale, in 26 soggetti con HIV, trattati con differenti regimi antiretrovirali.
Tutti i pazienti erano perfettamente controllati, presentavano una viremia al di sotto delle 5 copie/ml o valori non osservabili e avevano avuto una buona risposta immunologica a seguito del trattamento. Gli esperi hanno osservato che l’HIV DNA nel GALT era molto più elevato rispetto ai valori osservati nel sangue periferico.
“Il primo dato che deriva da questo studio è che l’osservazione eseguita esclusivamente sul plasma non ci dice quello che realmente accade in profondità, ovvero a livello del tessuto linfatico che rappresenta il vero reservoir virale. Un ulteriore dato che deriva dallo studio GALT è che sembra che i regimi con inibitori dell’integrasi abbiano un’efficacia maggiore in questo senso. Anche la persistenza al trattamento aumenta l’efficacia a livello del tessuto linfatico. Quindi dobbiamo garantire ai nostri pazienti una terapia altamente potente e tollerabile e assicurare il massimo dell’aderenza se vogliamo avere un’azione assoluta sul reservoir virale”.
“È cambiato il paradigma di cura. Una volta l’obiettivo del trattamento era la soppressione dell’HIV. Per raggiungere questo obiettivo dovevamo controllare l’aderenza, la potenza dei farmaci, la barriera genetica e il genotipo virale. Oggi si inizia a parlare di controllo clinico e di evoluzione clinica del paziente e il controllo virologico è solo un minimo aspetto che dobbiamo controllare. Quello che dobbiamo considerare oggi è la qualità di vita del paziente, la tossicità e potenza dei farmaci e le interazioni farmacologiche e dobbiamo cominciare a considerare la cronicizzazione del virus e la sua capacità di continuare a dare un processo di immuno-attivazione/infiammazione che è alla base della sindrome metabolica”, ha concluso Andreoni.
M Andreoni, La criticità della cronicità, 13-16 dicembre SIMIT2020 da pharmastar.it
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