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La SLA? No, non sembra affatto una malattia…

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SLA… che cos’è questa sorta di punizione divina, che si nasconde vilmente ed abilmente dietro ad un breve e quasi insensato acronimo? Ho qui scritto un’empatica riflessione nel tentativo di descriverla, aiutato dai tanti momenti e dalle molte difficoltose chiacchierate vissute insieme ai malati ad alta intensità assistenziale, che ho aiutato sul territorio dal 2010 ad oggi.

La SLA? No, non sembra affatto una malattia. Assomiglia piuttosto a una spietata condanna. Concepita da qualche perverso dio per mettere alla prova le incredibili capacità di adattamento umane.

Gli scienziati la descrivono come “Sclerosi Laterale Amiotrofica” o “Morbo di Lou Gherig”, una rara patologia degenerativa progressiva che stermina le cellule nervose responsabili del movimento di tutta la muscolatura volontaria: i motoneuroni. Ma questa descrizione così “asettica” e scientifica, non rende affatto l’idea. Perché in realtà la SLA è molto di più…

È una morte inesorabile, terribile, che ti porta via un pezzetto per volta. Giorno dopo giorno. Oggi non muovi più bene un piede, domani un braccio; poi non riesci più a tenere in posizione la testa. Fino alla totale immobilità. Mangiare e bere diventa gravoso, problematico, fino a risultare impossibile. Ti accorgi che una semplice operazione come parlare da qualche tempo si è fatta complessa, laboriosa; e ti ritrovi a farfugliare frasi sempre più incomprensibili, sino a perdere in toto la capacità di comunicare verbalmente. Fai spesso fatica a respirare e questa tua sensazione peggiora, divenendo più frequente e opprimente col passare delle settimane. Nonostante tutto questo, la lucidità mentale e la sfera sensoriale restano perfettamente intatte; e con esse il proprio io, la consapevolezza di sé, i fastidi, la sofferenza e il dolore. Sei costretto ad assistere al progressivo, totale e inesorabile disfacimento del tuo corpo, che viene divorato a morsi da una patologia tanto ingravescente quanto inarrestabile. Sei consapevole del fatto che non esiste nessuna cura e che presto dipenderai dagli altri per ogni cosa; anche solo per grattarti il naso.

Poi un giorno ti risvegli in un letto d’ospedale. Cerchi di capire cosa ti è capitato, ma ricordi solo che avevi fame d’aria e che ti sforzavi tanto per respirare; poi il buio. Ti rendi conto che ti è successo qualcosa di importante, di grave, ma che per (s)fortuna sei ancora vivo. Però non fai in tempo a fare un sospiro di sollievo e a ringraziare Dio, che ti guardi… e vedi dei tubi che ti entrano disgustosamente in gola; noti che accanto al tuo letto è posizionato un affare chiamato ventilatore meccanico, che soffia dentro a quei tubi per aiutarti a respirare; vedi poi una sonda ficcata nella tua pancia, attraverso la quale ti nutrono artificialmente con fluidi poco invitanti e per mezzo di un altro macchinario che te li spinge nello stomaco.

Ti dicono che dipenderai da quei presidi per il resto dei tuoi giorni. E che presto, essendo “stabile” dal punto di vista respiratorio, sarai dimesso per essere gestito a domicilio dalla tua famiglia e/o da servizi medico/assistenziali che operano sul territorio, quando ci sono. Oppure sarai parcheggiato in un ospizio travestito da invitante e specializzata clinica per pazienti ad “alta intensità assistenziale”.

Immobilità, inguaribilità, dipendenza dagli altri e dalle macchine… praticamente ti ritrovi impantanato in una sorta di via di mezzo tra quella che era la tua vita e quella che sarà la tua morte. Senza limiti di tempo, per giunta, visto che ora, grazie ai quei bei tubi ficcati nei nuovi orifizi che la “dea medicina” ha pensato e realizzato per te, sei un paziente “cronico stabilizzato”. Cosa vuol dire? Che sei in una condizione in cui si può sopravvivere anche per diversi anni. Fino alla prima brutta infezione. O alla prima vera crisi respiratoria. O al primo errore grave di chi ti assiste. O alla prima mano amica che spegnerà quel dannato macchinario che ti tiene in vita, accompagnandoti dolcemente dall’altra parte. In silenzio, però: non si può assolutamente parlarne con nessuno, qui da noi non è legale. Anche se lo fanno in tanti. Di nascosto. Nel buio. Come ladri nella notte.

Quanta forza ci vuole per sopportare tutto questo? Come ci si può adattare a questa nuova, cruda realtà? C’è posto, in questa terra buia e desolata, per la speranza o per momenti di gioia, di serenità o di libertà? È possibile, in qualche modo, far tornare “vita” questa complicata sopravvivenza?

Alcuni ci riescono, altri no. Per alcuni basta il sorriso dei propri cari per andare avanti, per altri non ha effetto neanche la nascita di un nipote. Alcuni impazziscono e si rifugiano nell’incomunicabilità, altri invece sopportano il tutto e si rapportano addirittura meglio col mondo, in quanto sono delle autentiche rocce; o forse perché erano già impazziti prima ancora che arrivasse la malattia. Ci sono malati che addirittura la prendono come una sfida e che resistono stoicamente, provando a vivere fino allo spegnimento dell’ultimo motoneurone; fino a che anche gli occhi, con cui hanno dovuto imparare a parlare e a dire “ti amo” alla propria moglie, non si muovono più.

Sì… sottoscrivo: assomiglia piuttosto a una spietata condanna.

Alessio Biondino

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