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La dura vita degli infermieri italiani, tra umiliazioni continue e accuse inverosimili

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La dura vita degli infermieri italiani, tra umiliazioni continue e accuse inverosimili
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Sarà che, come mi raccontava una collega non molto tempo fa, “siamo lo stipendio che percepiamo” (VEDI). Saranno gli antichi stereotipi del passato, che ci legano saldamente a una figura molto più sguattera che professionale (VEDI).

Sarà l’ignoranza dei politici (VEDI) e dei dirigenti, felicemente incarcerati (spesso non per preparazione o per meriti) nelle loro succulente poltrone, che proprio non ne vogliono sapere di riconoscere un’evoluzione iniziata molti anni fa e sancita per legge.

Tanto chi le rispetta, le leggi, in Italia? Solo alcuni sfigati. E chi le fa rispettare? In pochi, che spesso sono amici intimi di coloro che bisognerebbe controllare, sanzionare, o addirittura far smettere di lavorare e di lucrare sulle professionalità altrui.

Fatto sta che la nostra figura professionale, quella infermieristica, in molte (troppe) realtà sembra assai lontana dal rappresentare una professione vera. Figuriamoci una “professione intellettuale” (VEDI)…

Ci sono infatti infermieri che imbucano posta, riordinano sale e sanificano suppellettili (VEDI); colleghi felicissimi di raccogliere liquidi organici dai pavimenti, convinti che ciò sia necessario “per il bene del paziente” (e non per quello delle aziende, dispensate così dall’assumere personale ausiliario, VEDI); professionisti che fanno di tutto (ma davvero DI TUTTO, VEDI), obbligati dalle aziende presso cui lavorano e da un mobbing che sovente è spietato (VEDI). E poco importa se ciò sia fuori legge. Poco importa che il datore di lavoro sia “responsabile della salute mentale e sociale dei propri dipendenti” (VEDI).

Assistendo a queste scene, è inevitabile che cittadini e media siano confusi. E che scoppino a ridere, quando gli si spiega che anche l’infermiere è un dottore, che per legge potrebbe anche pretendere il suo titolo (VEDI).

Non è solo una questione di superficialità, di ignoranza o di scarsa voglia di informarsi: possiamo dire loro tutto ciò che vogliamo, mostrargli le nostre capacità, le nostre pubblicazioni (anche se in verità gli infermieri non scrivono un granché…), parlargli di “competenze avanzate” e elencargli tutte le leggi che hanno sancito la nostra cartacea evoluzione professionale, ma…

Finché ci vedranno imboccare pazienti, raccogliere vomiti, cambiare pannoloni, rispondere ai campanelli, portare il caffè ai signori medici, dedicarci agli effetti letterecci e in alcuni casi addirittura passare scopettone e mocio, sarà pressoché impossibile convincerli di qualsivoglia professionalità.

È inevitabile. E poco importa che a volte capiti anche di salvare la vita a un bambino, come accaduto al nostro collega e amico Massimo (VEDI): in un modo o nell’altro per i media è merito del medico (VEDI), anche se magari quest’ultimo stava solo a guardare, quando il paziente è tornato alla vita tra altre braccia capaci. Perché per la concezione che si ha dell’infermiere, egli non può essere altro che il braccio attraverso cui la magica mente medica agisce. Quindi non può essere merito suo. Mai.

Da qui a considerare l’ambulanza col “solo” infermiere a bordo un semplice taxi verso il più vicino ospedale (VEDI), il passo è assai breve… Da qui a accusare dei professionisti di aver inserito una supposta nell’orifizio sbagliato (VEDI), il passo è addirittura brevissimo. E poi ci sono addirittura dei casi limite, anche se piuttosto emblematici, come quello di Rovigo, dove nel 2016 l’affronto alla nostra cara professione intellettuale fu memorabile: la Ulss 18 impose un test di igiene personale agli infermieri (e non a altri professionisti), un vero e proprio “test dell’ascella” (VEDI), che riempì le pagine dei quotidiani umiliando un’intera categoria. Come sempre, la nostra.

C’è bisogno di un’azione quotidiana e dura da parte degli Ordini e della Federazione, ancora troppo silenti e “ignari” rispetto ad alcune dinamiche che sviliscono la professione infermieristica pressoché ovunque e da tempo immemore. C’è bisogno di istanze, come quella recentemente prodotta dall’AADI (VEDI), per ottenere una contrattazione separata e poter sperare così in un riconoscimento economico diverso. C’è bisogno di segnalare e di denunciare lo sfruttamento, il demansionamento, le formule lavorative al limite della follia, tutto ciò che mette a rischio i professionisti e, di conseguenza, i cittadini.

E’ ora di mettere in pratica la vasta collezione di conquiste teoriche e legislative acquisite!

Alessio Biondino

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