Droni, ospedali pieghevoli e un rete di cliniche connesse per il teleconsulto: tre applicazioni già disponibili negli Usa. Eppure non è facile introdurre simili novità.
La telemedicina è l’insieme di tecniche mediche e informatiche che permettono la cura di un paziente a distanza o, più in generale, di fornire servizi sanitari a distanza. Il suo impatto più importante riguarda l’accessibilità dei pazienti ai servizi sanitari. Negli Stati Uniti ne esistono due casi applicativi molto interessanti.
Il primo è rappresentato dai droni, utilizzati per situazioni di emergenza in telemedicina. Essi sono in grado di coprire decine di chilometri a una velocità di circa 100 Km/h e sono dotati di videocamera, display e altoparlante, e servono a trasportare un defibrillatore e farmaci per le emergenze, appunto. Ma possono anche teleguidare chiunque si trovi vicino al paziente se durante l’emergenza non c’è nessuna disponibilità di personale sanitario, supervisionando le corrette manocre di rianimazione. In altre parole, se arriva una chiamata da un’area dove l’intervento tradizionale impiegherebbe troppo tempo, si usa il drone.
Il secondo caso applicativo è rappresentato dal cosiddetto ospedale pieghevole, composto da cinque moduli prefabbricati e componibili che contengono le attrezzature necessarie per essere operativi in assenza di un vero ospedale. Include una sala parto con nido, una sala operatoria e una camera di isolamento a pressione negativa. A tali moduli sono annessi un dormitorio, una cucina e una centrale per l’erogazione dell’energia e dell’acqua e per lo smaltimento. In un locale vicino all’ingresso c’è poi un locale contenente una scrivania con almeno sei display: da qui si possono seguire tutte le operazioni nelle varie stanze. L’intera struttura, quando è chiusa, occupa uno spazio relativamente modesto ed è trasportabile con un rimorchio per barche. Si monta in un paio d’ore e può essere telecomandato. In caso di emergenza e in assenza di specialisti sul posto, è sufficiente collegare il centro di comunicazione dell’ospedale pieghevole con il corrispettivo di un ospedale “normale” per avere a disposizione le competenze necessarie.
In un suo articolo sull’argomento, Alberto E. Tozzi (Unità Innovazione e Percorsi clinici dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma) parla anche di un altro caso applicativo di telemedicina, rappresentato da una rete di ospedali connessi per il teleconsulto. Soluzione, questa, che consentirebbe di avere a disposizione tutta la documentazione clinica di un paziente distante come se fosse in ambulatorio. “Pensate – scrive Tozzi – ai pazienti con patologie complesse, magari rare, che si avventurano in improbabili viaggi della speranza con documentazioni spesso difficili anche da interpretare; e provate a immaginare lo stesso paziente che, attraverso il proprio ambulatorio di fiducia, senza spostarsi, può contare sul contributo dello specialista più esperto al mondo”.
Purtroppo i tempi per mettere in atto tali innovazioni, che si succedono a ritmo indiavolato, sono troppo lunghi (come avviene pure in ambito medico). Non è solo colpa dei problemi amministrativi e burocratici. Si tratta anche di un annoso problema metodologico. Sì, perché una nuova pratica non può entrare a far parte della routine clinica in assenza di prove. Gli studi tradizionali per dimostrare l’efficacia e la sicurezza degli interventi, però, sono a loro volta lunghi e costosi. Il che, naturalmente, impedisce o rallenta il ricorso alla telemedicina.
Per riparare, almeno in parte, a questo problema la Food and Drug Administration ha sdoganato la real world evidence come possibilità di generare prove di efficacia utili alla registrazione dei dispositivi medici. In sostanza, è possibile utilizzare studi osservazionali che si avvantaggiano di dati già disponibili, come quelli delle cartelle cliniche elettroniche, dei registri di malattia e di tutto ciò che possa essere utile a dimostrare l’impatto di un intervento.
Sostiene ancora Tozzi nel suo articolo: “Per la telemedicina, come per altre innovazioni, avremo la necessità di tentare soluzioni senza evidenze di base. Dovremo adottare una logica nella quale l’uso di alcune tecnologie comporterà il rischio di fallire e non potremo contare su evidenze generate altrove. Perché questo processo non diventi un suicidio, sarà necessario affrontare rischi modesti, alzando la posta progressivamente. E misurare accuratamente, passo dopo passo, cosa avremo cambiato con l’uso della telemedicina”.
Intanto la California ha inserito con successo la televisita nei percorsi di cura primaria, integrandola nella cartella clinica elettronica, come si trattasse di una prestazione qualsiasi. Dalla recente analisi di oltre 200mila televisite effettuate tra il 2015 e il 2017 è emerso che il 74% era stata effettuata attraverso uno smartphone e il 6% attraverso un tablet. L’efficacia di questo servizio è testimoniata dal fatto che il 93% dei pazienti ha ricevuto la risposta che si aspettava per risolvere il proprio problema. “Quindi – spiega Tozzi – non si tratta solo di raggiungere zone remote, ma anche la popolazione generale e quella emarginata, che per motivi diversi non va dal medico e non va in ospedale. La messa a punto di strumenti che ci permettano di raggiungere questa popolazione sarà sufficiente a giustificarne l’adozione”.
Redazione Nurse Times
Fonte: www.agendadigitale.eu
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