Lo ha stabilito la Cassazione con cinque ordinanze successive. Ribaltata la precedente decisione della Corte d’Appello.
La sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha detto no al riconoscimento di mansioni superiori se, per colpa delle necessità legate alla carenza degli organici, a un infermiere generico è assegnato un compito proprio dell’infermiere laureato e iscritto all’albo.
Anzi, “per le professioni sanitarie, la carenza del titolo abilitativo specifico e della relativa iscrizione all’albo producono la totale illiceità dello svolgimento di fatto di mansioni superiori e rendono inesigibile il diritto alla corrispondente maggiore retribuzione ai sensi dell’art. 2126 cod. civ.”. E ancora esiste uno “stretto legame tra la richiesta del titolo di studio abilitante da parte della legge e l’incidenza dell’attività sanitaria sulla salute e sicurezza pubblica e sulla tutela dei diritti fondamentali della persona”.
Quindi, ribadendo un principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa sotto il previgente regime del pubblico impiego, “qualora il contenuto e le mansioni di una qualifica discendano dalla legge professionale, in ordine al possesso di un determinato titolo di studio per l’esercizio di una professione, non può considerarsi utile ai fini del conseguimento di una tale qualifica (superiore) l’espletamento di mansioni che la legge professionale stessa riservi esclusivamente a chi è in possesso di quello specifico titolo di studio, atteso che, con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 2126 cod. civ., l’attività eventualmente svolta si pone come illecita perché in violazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela della generalità dei cittadini non già del prestatore di lavoro”.
Con queste motivazioni la Cassazione ha bocciato, con ben 5 ordinanze successive, tutte dello stesso tono, il riconoscimento del compenso per mansioni superiori concesso dalla Corte di Appello a infermieri generici sostenendo che “svolgevano di fatto le mansioni di infermiere professionale, alternandosi con questi ultimi in ragione della cronica carenza di personale”.
La Cassazione nelle sue ordinanze afferma che la Corte d’Appello, “nell’omettere di valutare le conseguenze del mancato possesso del titolo abilitativo in capo agli infermieri svolgenti mansioni superiori”, non ha motivato se, “alla luce della particolare rilevanza pubblicistica delle professioni sanitarie dovuta alla valenza costituzionale degli interessi coinvolti, il thema decidendum avrebbe potuto ritenersi soddisfatto dall’approdo interpretativo meno rigoroso tra quelli possibili”. E cioè il riconoscimento incondizionato delle pretese retributive a prescindere dalla qualifica formale degli appellanti.
Quindi la Corte d’Appello ha “erroneamente” ritenuto che agli appellanti, chiamati a svolgere l’attività di infermiere professionale senza averne il titolo abilitante, spettasse la maggiore retribuzione “in quanto, ribadendo l’orientamento di questa Corte, in ipotesi di adibizione di fatto alle mansioni di infermiere specializzato, non ricorrono le condizioni per l’applicabilità dell’art. 2126 cod. civ. per l’accertata illiceità dell’oggetto e della causa dell’obbligazione”.
Per questo, concludono le ordinanze, “la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa va decisa nel merito, ex art. 384, co.2, cod. proc. civ., con rigetto dell’originaria domanda”.
Fonte: www.quotidianosanita.it
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