Sono stati presentati ieri al Ministero della Salute i risultati dell’Osservatorio Italiano 2017 sulla Sicurezza di Taglienti e Pungenti. E per gli infermieri i dati sono allarmanti
Ogni anno, nel nostro paese, i casi di incidenti derivanti da ferite da punta o da taglio sono circa 130.000: di questi, ben il 75% è rappresentato da punture e da lesioni accidentali, mentre la parte restante da contaminazioni mucose e cutanee con sangue e altri liquidi biologici. In 1/5 dei casi (ben 26.000!) per gli operatori sanitari vi è il rischio concreto di contrarre epatite B, epatite C o Hiv.
Alcune indagini internazionali hanno infatti stimato che siano proprio questa tipologia di incidenti professionali a causare il 37%% delle epatiti B, il 39% delle epatiti C e il 4,4% delle infezioni da HIV contratte dagli operatori sanitari.
I dati dell’Osservatorio Italiano 2017 sulla Sicurezza di Taglienti e Pungenti per gli operatori sanitari, esposti ieri al Ministero della Salute in occasione del 6° Summit organizzato dall’European Biosafety Network (con il supporto incondizionato di Becton Dickinson), parlano chiaro: c’è un chiaro allarme sicurezza per gli operatori sanitari.
E, come ha sottolineato la presidente della FNC IPASVI Barbara Mangiacavalli: “L’infermiere, seguendo il paziente 24 ore su 24, è colui che ha più degli altri a che fare con taglienti e pungenti come gli aghi per le flebo, per la terapia iniettiva e per i prelievi, bisturi, forbici e quanto altro per il cambio delle medicazioni, e purtroppo è ancora elevato il numero di infortuni a rischio biologico derivante da queste ferite: il 63% degli incidenti coinvolgono aghi cavi, la metà dei quali pieni di sangue, il 19% aghi pieni, il 7% bisturi”.
C’è quindi bisogno di nuovi protocolli, nuovi DPI o di rivoluzioni per quanto riguarda la legislazione e l’applicazione delle norme sulla sicurezza del lavoro?
Probabilmente no… perché come avviene troppo spesso in Italia, i presidi ci sono. Le tecniche non mancano. Di leggi ne abbiamo a vagonate. E di controllori, più o meno amici o conoscenti dei controllati, anche. Forse è la coscienza e la cultura dei nostri lavoratori, oltre a quella dei datori di lavoro, il problema principale…
Fatto sta che secondo l’indagine circa il 75% delle esposizioni si verifica in relazione a procedure per le quali sono in larga misura disponibili dispositivi e procedure intrinsecamente sicure. Come è possibile? Beh… ben due infermieri su tre (il 66%) ammettono di compiere gesti o manovre che li mettono a rischio di incidenti per puntura o taglio, come re-incappucciare gli aghi usati. Una manovra scellerata, inutile, rischiosissima, tra l’altro bandita da quasi 30 anni.
Poi c’è il problema dei presidi impropri. Sì, perché in più del 40% dei casi lo smaltimento dei dispositivi contaminati avviene in contenitori non adatti; abitudine che mette a rischio tutto il personale, anche quello non sanitario. Soltanto 1 ospedale su 2, poi, usa dispositivi di sicurezza quando è previsto l’impiego di aghi cavi per terapie endovenose, e addirittura meno della metà per il prelievo venoso; pratiche, queste ultime, che rappresentano il maggior pericolo di infortunio e di potenziale infezione per gli infermieri.
Tutto ciò ha un costo importante per la collettività: ogni anno nel bel paese vengono spesi almeno 36 milioni di euro per far fronte alle conseguenze delle ferite accidentali da aghi cavi. E siamo anche “fortunati”, per così dire, visto che si stima che la metà degli incidenti non venga affatto denunciata (per una sottovalutazione del rischio, per paura di perdere il posto di lavoro, perché ci si vergogna dell’errore o per la snervante burocrazia necessaria alla notifica).
Come spiega Gabriella De Carli, infettivologa dello Studio Italiano Rischio Occupazionale da Hiv presso l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani: “L’Italia ha una eccellente legislazione sulla sicurezza del lavoro, tuttavia per quanto attiene l’adozione dei dispositivi di sicurezza, che dovrebbero andare a sostituire gli strumenti che l’operatore usa quotidianamente per svolgere il suo lavoro e che lo mettono a rischio di infezioni, molto deve essere ancora fatto”.
Perché? La dott.ssa Carli ha ben pochi dubbi: “Non è sufficiente fornire dispositivi più sicuri per le procedure a rischio e per lo smaltimento. Occorre operare un cambiamento culturale che coinvolga tutti, a partire dai Direttori Generali delle aziende sanitarie fino al singolo operatore, che non deve mai sottostimare i rischi”.
Ed ecco che ritorna, ancora una volta, l’aggettivo “culturale”. Sarà mica che, seriamente, nella nostra sanità, così come in tanti altri ambiti (poco funzionanti) del nostro beneamato paese, sia davvero necessaria una rivoluzione in tal senso?
Alessio Biondino
Fonte: Repubblica
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