Un’infermiera sessantenne, dipendente dell’ospedale “Infermi” di Rimini, è indagata con l’accusa di “accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico”.
Rischia fino a cinque anni di reclusione a causa delle aggravanti previste per gli incaricati di pubblico servizio.
Per l’accusa avrebbe eseguito centinaia di accessi nella banca dati Sanitaria, consultato senza alcuna motivazione lavorativa la cartella clinica di quella che riteneva essere una sua lontana parente.
Il sospetto sarebbe invece che la sua intenzione fosse quella di prendere visione della cartella clinica della paziente per informare i reali parenti delle condizioni di salute della donna.
Questo particolare interessamento era però dovuto esclusivamente a motivi economici: secondo gli inquirenti, gli eredi sarebbero stati in trepidante attesa della sua dipartita.
È stata la paziente stessa a denunciare il presunto “furto” dei dati riservati contenuti nella sua cartella clinica.
Nonostante avesse nascosto a tutti lo stadio avanzato della patologia di cui soffre, i parenti con i quali aveva interrotto ogni tipo di rapporto a causa di una pregressa diatriba legale, sarebbero stati perfettamente informati di ogni minimo particolare.
Pochi giorni fa, i famigliari le avrebbero comunicato sulla faccia e senza troppi preamboli di non avere più intenzione di rispettare l’accordo che li costringe a privarsi di un immobile per pagare il risarcimento dovutole.
«Non vendiamo più l’appartamento: non c’è più bisogno visto che ti rimangono solo pochi mesi di vita».
«Fosse l’ultima cosa che faccio, voglio sapere come hanno fatto a saperlo» ha detto la pensionata rivolgendosi all’ispettore Massimo Di Stefano, responsabile del posto fisso di polizia dell’ospedale Infermi.
Gli agenti hanno quindi individuato le “intrusioni” informatiche dell’infermiera, in servizio in un altro reparto, nel “file” di Oncologia.
Utilizzando la propria password avrebbe effettuato centinaiai di accessi, non motivando professionalmente le sue “curiosità”.
La professionista sanitaria, difesa dall’avvocato Enrico Monti, respinge l’addebito del reato informatico e quindi di competenza della Dda. Il legale, dal canto suo, parla di «marginalità» della vicenda e di «estraneità» della cliente.
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