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Immigrati e sanità italiana

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Occuparmi di quest’argomento all’indomani degli avvenimenti di Bruxelles è sicuramente molto impegnativo e al momento stesso piacevole, essendo una ferma sostenitrice del diritto alla salute e dell’approccio olistico punto di forza della nostra professione. Questo mi consente di occuparmi delle persone al di la di quelle che possono essere le differenze di razza e religione.
Le donne immigrate hanno spesso parecchie difficoltà nell’accostarsi al nostro sistema sanitario, sia per quello che concerne l’aspetto prevalentemente comunicazionale, che appunto incide sulla compliance delle eventuali terapie, sia per ciò che riguarda i loro rapporti sociali, usi e costumi e con questo intendo riferirmi al velo.

Le donne straniere si ricoverano meno frequentemente ad esclusione delle malattie infettive e parassitarie, che invece colpiscono in misura maggiore le donne immigrate. Le ricerche effettuate in questo campo (Castiglioni, 2004) rilevano una diversa modalità di vivere la maternità e il parto da parte delle donne migranti in Italia rispetto a quanto avviene nel paese d’origine.

Soprattutto per le donne di origine africane: a differenza delle coetanee dell’Europa dell’Est, la maternità e il parto coinvolgono la famiglia allargata e tutte le donne della comunità mentre nel Paese di emigrazione la gravidanza viene invece vissuta come una malattia, ciò incide sulla salute della donna e del bambino, lo si evince dal numero delle nascite pretermine con neonati di basso peso (i nati prematuri nelle donne immigrate sono il doppio, circa il 10,76% contro il 4,63% delle italiane) e l’alto numero di parti cesarei.

Questi fattori comportano ad esempio l’interruzione precoce o il rifiuto dell’allattamento al seno. I comportamenti discriminatori in ambito sanitario sono stati oggetto d’indagine nel Progetto IISMAS (Istituto Internazionale Scienze Mediche Antropologiche e Sociali) “Servizi sanitari e discriminazione razziale. Strumenti e pratiche di prevenzione e contrasto della discriminazione razziale nell’accesso all’assistenza medica”.

L’indagine si colloca sulle procedure attuate nei parti cesarei in donne immigrate focalizzandosi sull’assistenza dei servizi, l’intervento terapeutico ed i modelli di comunicazione. Sono stati analizzati i dati su parti cesarei in quattro ospedali “campione” nelle città di Roma, Torino, Arezzo, nell’anno solare 2006.

Interviste ad operatori sanitari, distribuzione di 1000 questionari ad infermieri, e conduzione di focus group ad utenti/pazienti stranieri provenienti prevalentemente dalle aree del Maghreb, Cina, Filippine, Centro Africa, Romania, Albania, Sud Asiatico, Est europeo e Rom e Sinti. Il lavoro coinvolto altresì dei mediatori interculturali come ponte tra le culture nella facilitazione all’accesso alle esperienze degli stranieri.

I risultati hanno evidenziato l’esistenza di una discriminazione indiretta, fortemente evidenziata dai colloqui con le donne straniere che hanno partorito in Italia, quando il numero dei parti medicalizzati in Italia (il 30% delle partorienti, contro ogni raccomandazione dell’OMS di non superare il 12%), si aggrava nei parti cesarei TC d’urgenza (Tagli Cesarei) che raggiungono il 21, 4% nel caso delle donne immigrate, fino a ravvisare valori vicino al 100% nelle donne bengladeshi, filippine, peruviane.

Le motivazioni sono da imputare ad un mancato iter terapeutico-assistenziale, a confronto con le donne italiane. La percentuale di donne straniere che effettua la prima visita oltre la dodicesima settimana è il 24% contro il 4,4%, un numero medio d’ecografie inferiore, e l’amniocentesi è effettuata solo dal 6% delle straniere.

Una discriminazione diretta, si è registrata principalmente nei confronti delle donne musulmane, in particolare per coloro che indossano il velo, e negli osservanti la religione musulmana in generale. E’ fondamentale quindi accostandosi a questi pazienti seguire delle norme sociali che loro avvertono come proprie: ad esempio la scelta del medico donna e poi quella di seguire un’alimentazione priva di carne.

L’indagine ha messo in risalto la grande difficoltà della comunicazione, per il diverso approccio al parto, tra paziente e medico, con difficoltà per entrambi. Si utilizzano metodologie d’intervento, attraverso best practice, non sempre spiegate in maniera adeguata alle pazienti: su 20 donne straniere presenti in un ambulatorio a Roma, 18 di queste donne avevano partorito con parto cesareo d’urgenza per cause sconosciute.

L’alto tasso dei Tc d’urgenze è da imputare senz’altro ad una mancata attenzione nei confronti dell’assistenza al paziente straniero. Superficialità evidenziabile nella mancanza di mediatori culturali nei servizi, nella disuguaglianza nell’applicazione delle leggi negli ospedali e, soprattutto, nella poca continuità di cura e assistenza.

Un Servizio Sanitario Nazionale non discriminante, al passo con i tempi, non può permettere che in aree dove risiedono migliaia di stranieri regolari siano assenti servizi socio sanitari dedicati all’immigrazione, consegnando un’Italia a macchia di leopardo.

L’Azienda USL Roma C è stata pioniera per la Regione Lazio di vari progetti il cui obiettivo è quello di attivare, servizi sanitari nei quali l’utente di ‘cultura altra’ diventi attore dei servizi (Cavicchi, 2007).

Il servizio STP del Distretto Sanitario VI Municipio dell’Azienda USL RM/C è all’interno del Presidio territoriale integrato “Santa Caterina della Rosa”. È stata elaborata una quantità considerevole di dati riguardanti sia il numero di accessi degli utenti immigrati, sia i loro problemi di salute, al fine di valutarne le patologie prevalenti in relazione a variabili indipendenti quali il Paese di provenienza, l’età, il genere e la situazione familiare.

Da una prima analisi è emerso che l’etnia più numerosa nel richiedere le prestazioni ambulatoriali è quella bengalese (720 utenti nel 2009), che di conseguenza è stata scelta come target per la somministrazione di un questionario, rivolto a comprendere le eventuali difficoltà incontrate nell’utilizzo dei servizi: le modalità di accesso, la soddisfazione per l’assistenza ricevuta, i problemi di comunicazione con gli operatori sanitari e i suggerimenti per risolverli, la conoscenza di qualche lingua straniera (oltre alla propria) e l’eventuale esperienza dei servizi di mediazione culturale.

Per le criticità che lo caratterizzano, al servizio STP è assegnata un’infermiera con specifiche competenze professionali e linguistiche; tuttavia anche altri operatori del poliambulatorio, a rotazione, vi effettuano sostituzioni e soprattutto assistono utenti stranieri inviati dal servizio STP alle diverse sale di medicina specialistica.

Anche a questi infermieri è stato somministrato un questionario, rivolto a comprendere quanto i professionisti si sentano in grado di gestire efficacemente le problematiche di salute degli immigrati, a cominciare dalla comunicazione e dalla capacità di coinvolgere il paziente in una migliore compliance terapeutica, al fine di valutare il relativo fabbisogno formativo e progettare eventuali interventi.

La cosa fondamentale è dare agli stranieri le informazioni necessarie sul funzionamento e sulle prestazioni del SSN e sulle modalità di accesso. considerando la forte connotazione culturale della malattia, della cura, del rapporto con il proprio corpo e della manifestazione agli altri della propria malattia, dall’altra la condizione di illegalità di alcuni stranieri presenti sul nostro territorio ai quali occorre assicurare il diritto fondamentale alla salute (Bachelet, 2009).

Risulta una presenza chiave del mediatore culturale per le diverse etnie che funga da interfaccia fra operatore e utente e proprio dalla triangolarità della comunicazione scaturisce la complessità di questa figura. Obiettivo è quello di mettere in relazione due gruppi: la comunità di appartenenza del paziente e la società di accoglienza.

Il mediatore deve rispondere contemporaneamente alle aspettative e alle esigenze di comunicazione dell’operatore italiano, incorporando e trasmettendo prescrizioni e indicazioni, e dell’utente, accogliendo e reinterpretando la diversità. Il principale aspetto su cui investire per migliorare la qualità del servizio riguarda la formazione degli operatori, sia sulla conoscenza delle diverse culture con cui vengono a contatto, sia sugli aspetti relazionali e comunicativi.

Di Girolamo (2008) ipotizza il ruolo di counselor transculturale nella presa in carico di persone di altra etnia, che risente della conoscenza delle norme, dei valori, dei significati della cultura del cliente, per cui è necessario che il professionista d’aiuto abbia una formazione antropologica. La difficoltà a relazionarsi con culture diverse mette spesso a rischio l’efficienza e l’efficacia della prestazione, o perlomeno la percezione che ne ha il cittadino straniero.

Conoscere il contesto sociale e culturale dell’immigrato è un impegno deontologico per l’infermiere al fine di una gestione ottimale degli stili di vita dell’assistito. Vi è la necessità di servizi che orientino e aprano un dialogo continuativo con questo tipo di utenza, con l’obiettivo di facilitare l’utilizzo delle strutture pubbliche e fare educazione sanitaria.

Per fare questo occorre conoscere la specificità dei bisogni di salute degli immigrati e individuare nuove modalità operative per soddisfare la loro domanda emergente e sommersa (Adani, 2005) In conclusione appare necessaria una riflessione sul significato di “competenza culturale” in ambito clinico-assistenziale, definita come un insieme di attitudini individuali e abilità comunicative e pratiche che rendono gli operatori capaci di realizzare efficacemente il lavoro di cura incorporando i contenuti culturali degli individui assistiti.

Mina Cucinotta

Fonti:

www.ipasvi.it
www.iismas.it

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