L’esperienza di Alessio Biondino continua….
Per mesi ho controllato gli annunci di lavoro online, ma ormai escono solo offerte per l’estero o quegli annunci che ti fanno passare la voglia di cercare tipo “Cercasi Infermiera-Badante, no perditempo”.
A luglio, dopo 8 mesi di inattività, vengo chiamato per un colloquio da un’importante realtà privata di Roma. Mi fanno capire spudoratamente che il mio Curriculum è stato segnalato da una caposala che ci lavora, altrimenti non sarei mai stato contattato visto che hanno interi scaffali di Curricula che non verranno neanche mai visionati. Si parla di lavorare in un reparto per neonati. Accetto con entusiasmo, nonostante le condizioni da insulto: iscrizione ad un’associazione per 9 euro lorde l’ora. Si parla di lavorare con la loro partita iva come infermiere associato. Non sono convinto della formula, ma inizio subito.
Non mi fanno firmare nulla. Sarò gestito totalmente dalla caposala, come fossi un infermiere assunto direttamente dall’azienda (comodo così, eh?!); con la differenza che io non ho nessuna (ma proprio NESSUNA!) tutela, vengo pagato una miseria e posso essere mandato via da un giorno all’altro a seconda degli umori di chi mi gestisce. O peggio… Degli umori dei colleghi anziani, che sono una specie di inattaccabile setta. Che bisogna accontentare, assecondare e contro cui non bisogna MAI entrare in contrasto. Pena un’inevitabile allontanamento. Contro di loro anche il coordinatore può fare poco. Il mio grande entusiasmo iniziale dovuto al fatto di assistere i neonati (esperienza meravigliosa) lascia spazio nei mesi all’ennesima depressione professionale.
Il concetto de “Il paziente al centro”, tanto decantato dai miei docenti universitari, nella sanità di oggi altro non è che un’astratta e irraggiungibile chimera; qualcosa di inutile, quasi; come se fosse un problema minore: bisogna correre, produrre, fare più cose insieme possibili, senza pause. Non importa se ci si sta dedicando ad operazioni potenzialmente rischiose. Non importa se si sta gestendo pazienti fragili. Non importa se si lavora a contatto coi neonati. Bisogna raggiungere gli obiettivi o per lo meno far sembrare che siano raggiunti, se necessario “aggiustando” un po’ qua e là per dimostrare la propria efficienza a discapito di altri. Fingendo che la coperta non sia mai troppo corta. Bisogna correre! Perché anche se si è in turno in due, manca il personale e quindi bisogna fare il lavoro di sei; non ci sono OSS a supporto, quindi si deve svolgere anche le loro mansioni. Bisogna gestire 40 neonati in un reparto che dovrebbe ospitarne 16, bisogna pulire e disinfettare culle ed incubatrici, bisogna preparare i latti, ecc. Correre, correre, correre! O per lo meno far vedere che si corre! E se per caso a volte storci il naso, protesti perché rivendichi di voler lavorare quanto meno in sicurezza, ti viene puntualmente ricordato che sei precario e che se “non ti va di accettare certe condizioni, puoi lasciare spazio alle tante persone che sono in attesa che il tuo posto si liberi”. Quante volte ho sentito questo squallido ritornello. La cosa più triste è che l’ho sentito pronunciare dai colleghi. Infermieri come me.
A dicembre sono stato chiamato per firmare qualcosa dal notaio con l’associazione. Premetto che fino a quel momento non avevo sottoscritto niente, nonostante gli stipendi fossero stati pagati regolarmente. Mi mettono davanti lo statuto e mi chiedono di firmare l’entrata in associazione. Dopo 5 mesi di lavoro?! L’entrata in associazione?! Dopo aver letto alcune clausole strane di cui non mi era stato parlato (alcune decisamente rischiose), ho dato immediata disdetta. E ho deciso di non lavorare mai più come infermiere associato.
Da gennaio di quest’anno svolgo la mia attività professionale di nuovo a domicilio con pazienti ad alta intensità assistenziale. Stavolta come libero professionista, presso un’altra azienda leader nel settore. Seguo Davide, sfortunato ragazzo di 32 anni affetto da sclerosi multipla, tracheostomizzato e ventilato meccanicamente h24 a causa di importanti e poco chiare complicazioni. E lo faccio con una sorta di rassegnato entusiasmo. Contento per la nuova opportunità, felice di aiutare lui e la sua famiglia e sentendomi di nuovo un infermiere apprezzato e stimato. In attesa di una qualche stabilità contrattuale e di tempi migliori, se mai arriveranno. Anche se a questo punto… Non ci penso più come una volta.
Questo è il mio percorso fino ad oggi. Che è il percorso di un infermiere come tanti in questo periodo. Non vuole insegnare niente a nessuno, bensì fungere da denuncia di una situazione insostenibile che purtroppo, a causa della sua cronicità, sta diventando una cosa “normale”. Molte nuove leve infatti pensano che fare l’infermiere sia questo. Si demansionano da soli per non incorrere in mobbing o licenziamenti, accettano le più ignobili condizioni lavorative con estrema “normalità”. Molto spesso non lottano nemmeno. E cosa peggiore… Non si fanno più domande. In attesa dei soliti pochi concorsi per pochissimi posti qua e là per l’Italia, per cui ci si ammassa in migliaia. Con ben poche speranze.
Personalmente… Barcollo, ma non mollo: ho deciso di continuare a lottare e di contribuire, a denti stretti, alla rinascita di questo paese e della mia professione. Quindi assisto, leggo, scrivo e mi batto per migliorare ciò che faccio, ciò che sono e le condizioni dei pazienti. Ho sposato una bellissima infermiera di terapia intensiva con cui condivido l’amore/lotta in favore della professione. E farò sempre del Profilo Professionale dell’Infermiere il mio avvolgente vessillo.
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