L’infermiera Anna Arnone, nostra collaboratrice, propone una riflessione sulla compilazione di un diario come strumento per elaborare il momento del ricovero dopo la dimissione dalla terapia intensiva e per prevenire i disturbi psicologici.
Numerosi studi hanno dimostrato che il ricovero in terapia intensiva (TI) trascorre nella maggior parte dei casi in stato di sedazione e in stato di coscienza, di cui i pazienti stessi riferiscono ricordi frammentari, confusi, mai rielaborati e superati. Queste condizioni possono sviluppare forti stati di disagio psicologico (Scragg et al., 2001), fino a scatenare la Post Intensive Care Syndrome (PTSD) (McIlroy et al., 2010; Fukuda et al., 2015; Hoffman et al., 2015; Harvey et al., 2016).
Tra gli interventi proposti per elaborare il momento del ricovero dopo la dimissione dalla terapia intensiva e prevenire i disturbi psicologici vi è la compilazione di un diario (ICU Diary). Si tratta, secondo la letteratura internazionale, di una narrazione scritta del ricovero del paziente in terapia Intensiva non di tipo clinico, ma discorsivo e soggettivo, condiviso dal personale sanitario e dai membri della famiglia.
Vi cui vengono riportati in forma narrativa, sotto forma di messaggi e frasi, gli avvenimenti di maggior rilievo che hanno caratterizzato la vita del paziente durante il ricovero in terapia intensiva. Talvolta include anche fotografie, con un linguaggio semplice e informale e con diversi tipi di formato (Greco et al., 2009; McIlroy et al., 2010; Nydahl et al., 2010; Barreto et al., 2019).
Si tratta quindi di una registrazione della degenza del paziente in terapia intensiva: la vita quotidiana del paziente, le procedure, i trattamenti e le visite ricevute. In questo modo il paziente che ha subìto esperienze traumatiche in seguito a trattamenti invasivi, stati dolorosi, procedure diagnostico-terapeutiche e alla permanenza in luoghi con rumori, luci e spazi chiusi proprie dei reparti di area critica, può essere aiutato a rielaborare una parte della sua esperienza che altrimenti sarebbe perduta o ricordata in maniera confusa o distorta.
La compilazione e i modelli del diario variano di sito in sito, così come lo stile, il contenuto, i soggetti compilatori, il registro di scrittura. In genere non richiede molto tempo da parte del personale infermieristico e dei famigliari. Alcuni studi hanno dimostrato che sono sufficienti circa cinque minuti per turno (Nydahl et al., 2014) e che tale pratica consente al paziente di rimodellare l’esperienza vissuta e mantenere un legame con i propri cari durante il tempo perduto (Ewens et al., 2014).
A partire dagli anni Ottanta (Bergbom et al., 1999) lo strumento si è diffuso su iniziativa di alcune infermiere della Scandinavia, per poi implementarsi nell’Europa del Nord (Greco et al., 2009, Egerod et al., 2007).
L’uso del diario sembra permettere al paziente di ricomporre quel tassello della propria vita che andrebbe altrimenti perduto (Ewens, 2014) o ricordato in modo distorto. Questo intervento sarebbe in grado di prevenire ansia, depressione, disturbi del sonno, problemi di elaborazione mentale e mobilità limitata. Inoltre comporterebbe un basso costo sanitario (Combe, 2005; Egerod et al., 2007; Knowles, 2009; Jones, 2010; Nydahl et al., 2014; Fukuda, 2015).
Il diario narrativo evidenzia il coinvolgimento del personale che si prende cura dei pazienti e delle famiglie, sottolineando il loro contributo nel fornire informazioni circa il ricovero e le condizioni di salute. Infine una comunicazione efficace tra gli operatori sanitari e la famiglia aiuta a creare fiducia: facilitare il sostegno sociale delle famiglie e degli individui è una strategia importante per ridurre il disagio psicologico.
Sarebbero necessari lavori futuri su come i diari potrebbero influenzare le traiettorie di recupero dei pazienti dimessi e dei familiari in termini di risultati psicologici, sociali e comportamentali.
Anna Arnone
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