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Il caso Richard Handley: si può morire di stipsi nel terzo millennio?

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Il caso Richard Handley: si può morire di stipsi nel terzo millennio?
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Una storia davvero difficile da credere. E da accettare.

Forse questa storia urterà la sensibilità di qualcuno, benché, tra infermieri, ci si abitui a sentirne di ogni. Si può morire di stipsi nel terzo millennio, in una nazione economicamente avanzata, con un sistema sanitario pubblico e gratuito tra i più sviluppati e invidiati al mondo per la sua organizzazione? Sembra incredibile, ma è successo.

Richard Handley è un giovane di 33 anni, affetto dalla sindrome di Down. Il 17 novembre del 2012 Richard muore nella terapia intensiva dell’Ipswich Hospital, in Gran Bretagna, per un infarto causato dall’inalazione dei suoi stessi liquidi fecali. Due giorni prima, nel corso di un intervento chirurgico, gli erano stati rimossi ben 10 kg di fecalomi, che costituivano solo una parte di quelli presenti nel suo intestino. Il rapporto del medico legale, Peter Dean, depositato in tribunale lo scorso 8 febbraio, punta il dito contro una serie di gross failings, ovvero di gravi inadempienze, soprattutto a carico dei suoi assistenti sociali, ma anche dello staff ospedaliero.

Secondo la ricostruzione degli eventi, ora al vaglio del giudice, Richard si era visto modificare, tre anni prima della sua morte, il suo regime assistenziale da residential care, analogo a quello che persone con disabilità cognitive ricevono in strutture residenziali in Italia, a living support facility, sempre all’interno della medesima struttura, la Bonds Meadow, che nel frattempo aveva modificato il proprio accreditamento con le istituzioni. In altre parole, Richard era stato riconosciuto in grado di vivere in modo indipendente, ma supportato – ad esempio nelle decisioni inerenti l’impiego delle sue finanze personali – dagli assistenti sociali e dai carers, ovvero dai badanti, che però non prestavano più assistenza con regolarità quotidiana.

Da allora, la routine della vittima aveva subito dei cambiamenti che, come sostenuto dagli avvocati della sua famiglia, avrebbero determinato un lento e progressivo deterioramento delle sue condizioni di salute. In primo luogo gli era stata modificata – all’insaputa della famiglia stessa – la rigida dieta che aveva sempre seguito e, nella terapia quotidiana, erano stati introdotti farmaci che avevano, tra gli effetti collaterali, proprio il rallentamento della motilità intestinale. In più, il nuovo regime aveva implicato l’abbandono di un costante monitoraggio delle funzioni intestinali.

Una volta ricoverato all’Ipswich Hospital, nel novembre del 2012, lo staff infermieristico e medico avrebbe inoltre sottovalutato il campanello d’allarme costituito dal National Early Warning Score (score NEWS), ovvero la scala adottata nel Regno Unito per individuare segni precoci di compromissione dei parametri vitali nei pazienti.

L’intervento chirurgico sarebbe stato tardivo e non in grado di evitare la morte del giovane. In buona sostanza, come affermato dal coroner, nel caso di Richard si è verificato un fallimento in ogni stadio del percorso assistenziale, fallimento che avrebbe potuto essere largamente prevenuto. Nonostante queste conclusioni, il rapporto del medico legale non ha stabilito una specifica condotta negligente, ma una catena di ripetute e prolungate inadempienze a carico di tutti gli attori della vicenda, rendendo così più problematica l’incriminazione per i singoli clinici e assistenti sociali coinvolti.

La famiglia di Richard ha reagito con disappunto alle conclusioni contenute nel rapporto, riservandosi di discutere col proprio avvocato le successive azioni da intraprendere. Nel frattempo, il clamore suscitato dall’eccezionalità della vicenda ha avuto una vasta eco sui media inglesi, accendendo nuove polemiche sulla qualità dell’assistenza alle persone con disabilità cognitive da parte delle istituzioni e dei professionisti a essa deputati, accusati di trattare questi pazienti come “cittadini di serie B”.

Luigi D’Onofrio

 

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