Riceviamo e pubblichiamo il commento del vicepresidente dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, dott. Carlo Pisaniello, alla sentenza della Cassazione sez. III civ. n. 07257 del 23 marzo 2018.
Il caso riguarda una bambina che ha subito la perdita dei denti a seguito di terapie errate da parte dei sanitari. La madre della minore ha citato in giudizio l’azienda ospedaliera ed i medici chiedendo che si accertasse la causa della non conformità dell’operato di due sanitari ai criteri di diligenza professionale, in quanto le patologie della minore, non solo non si erano risolte, ma addirittura le sue condizioni erano peggiorate arrivando alla totale perdita dei denti e al deterioramento della situazione occlusale con persistenti dolori e lesioni.
In particolare la madre denuncia di aver affidato la minore alle cure della dott.ssa CM in servizio presso la struttura odontostomatologica dell’azienda sanitaria X, la quale aveva prescritto alla minore un apparecchio ortodontico che aveva usato per sei anni, sottoponendosi regolarmente a visite di controllo e che, in seguito all’ingravescenza algica e alla persistenza della malocclusione, nel 2000 la dottoressa indicò alla paziente che nel frattempo divenuta maggiorenne, la necessità di eseguire un intervento chirurgico con spostamento mascellare, intervento descritto come semplice e di breve durata, nonché risolutivo per il problema occlusale.
Il tutto previ trattamenti preliminari presso lo studio di Torino in cui la stessa paziente si era recata più volte fino al 2000, seguita da un altro medico il Dott. VV, anch’egli medico maxillo facciale. Ad intervento avvenuto, la paziente veniva dimessa con “la bocca in contenzione, la faccia tumefatta, l’impossibilità di masticare e un blocco mascellare per 45 gg.”.
Anche dopo la rimozione delle contenzioni la situazione era rimasta critica, tant’è che aveva perso l’anno scolastico e durante un controllo radiografico mostrava il distacco delle placche di contenzione dell’osso nonché una grave infiammazione dell’apparato gengivale.
Successivamente le venivano estratti diversi denti presso la struttura sanitaria e, nel luglio del 2003, fu sottoposta ad un intervento di rimozione delle placche di sintesi, senza però alcun miglioramento dello stato di salute.
Rivolgendosi ad altro medico specialista, aveva appurato che, presso la struttura ospedaliera in cui era stato eseguito l’intervento chirurgico, non era reperibile la documentazione clinica relativa al suo percorso terapeutico; si sottopose comunque a cure odontoiatriche per “bonificare carie e patologie gengivali derivate quale conseguenza dell’imperito trattamento precedentemente ricevuto”, residuando un peggioramento della salute del cavo orale rispetto a quello iniziale.
A seguito della costituzione in giudizio dell’azienda convenuta e dei medici, venne richiesta dal Dott. VV la CTU con annessa integrazione peritale, il tribunale di Pinerolo con sentenza del 13-08-2011 n. 275, rigettò la domanda della parte attrice compensando le spese di giudizio e addebitando il costo della CTU alla parte attrice.
Il Tribunale di Appello , nel respingere l’impugnazione della paziente, ha ritenuto che la sentenza di primo grado andasse confermata nella parte in cui aveva affermato che, l’onere della prova circa la sussistenza di un nesso eziologico tra le varie terapie, incombesse sulla parte ricorrente e che tale onere non fosse stato assolto, tenuto conto che il consulente aveva riferito di non essere in grado di rispondere a nessuno dei quesiti postigli dal Tribunale, a causa dell’assenza di significativi riscontri documentali che valessero ad orientare le indagini.
La paziente ricorre per Cassazione in quanto a suo avviso, il fatto che anche il consulente non fosse stato in grado di poter esprimere un giudizio sul risultato di un trattamento sanitario, perché non aveva avuto la possibilità di poter esaminare la documentazione sanitaria che mostrasse gli antecedenti prima del trattamento, sarebbe la dimostrazione che la motivazione della mancanza del nesso causale, tra il trattamento e gli effetti dannosi subiti dalla paziente, non poteva risolversi in suo danno; anche il giudice di prime cure in proposito aveva ordinato, ex art. 210 c.p.c., l’ordine di esibizione della documentazione sanitaria, sia all’azienda che alla Dott.ssa CM, ordine restato senza alcun esito come espressamente motivato dal giudice, in quanto l’azienda dichiarava di non averla rinvenuta, restando per altro del tutto silente anche la Dott.ssa CM.
Tale inadempienza avrebbe anche violato il dettato degli artt. 1176 e 2118 c.c., in quanto gli smarrimenti di documentazione imputabili al medico o alla struttura, possono rilevare ai fini del nesso eziologico presunto.
Ad avviso della ricorrente, infatti, le motivazioni del giudice di prime cure sarebbero in contrasto con il principio di vicinanza della prova, criterio presuntivo cui fare affidamento tutte le volte che la prova non può essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro cui, il fatto da provare, avrebbe dovuto essere invocato.
Inoltre la motivazione sarebbe viziata sotto il profilo logico-giuridico, in quanto il CTU aveva attestato con precisone che “lo stato di mal occlusione dell’apparato stomatologico della Sig.ra MB riscontrato al momento della visita peritale risulta sicuramente peggiorato almeno in parte rispetto ai risultati descritti nei documenti allegati in atti”.
Con il secondo motivo la ricorrente si duole della erronea valutazione dell’inottemperanza all’ordine di esibizione disposto ex art. 201 c.p.c. ed evidenzia che, sebbene il giudice di prime cure avesse motivato in proposito, stigmatizzando la deprecabile incuria dell’organizzazione e della gestione degli uffici amministrativi della struttura sanitaria e il disinteresse della dott.ssa CM, la Corte di Appello aveva omesso del tutto di trarre, da tale circostanza, argomento di prova in danno della parte inottemperante.
Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente si duole del fatto che il criterio di riparto dell’onere probatorio, secondo cui al paziente spetta provare il “contatto sociale” e il nesso causale, in ordine all’aggravamento della situazione patologica e l’insorgenza di nuove patologie, sia stato inteso in senso astratto dalla Corte di merito, senza tener conto di quanto risultato dall’istruttoria e dei canoni della responsabilità contrattuale invocata.
La Corte di Cassazione, richiamata ad occuparsi di casi in cui la ricostruzione delle modalità e delle tempistiche della condotta del medico non poteva giovarsi delle annotazioni contenute nella cartella clinica, a causa della omessa o lacunosa redazione della stessa, ha costantemente addossato al professionista gli effetti, vuoi attribuendo alle omissioni nella compilazione della cartella il valore di nesso eziologico presunto (Cass. 21.07.2003 n. 11316; Cass. SS.UU. 11.01.2008 n. 577), vuoi ravvisandovi una figura sintomatica di inesatto adempimento, essendo obbligo del medico ed esplicazione della particolare diligenza richiesta nell’esecuzione delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attività professionale ex art. 1176 c.c., controllare la completezza e l’esattezza delle cartelle cliniche e dei referti allegati (Cass. n. 1538 del 26.01.2010; Cass. 18.09.2009, n. 20101).
Al riguardo è stato precisato che la difettosa tenuta della cartella, non solo vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra condotta colposa dei medici e patologia accertata, ma consente il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova a al rilievo che assume a tal fine il già richiamato criterio della vicinanza della prova, e cioè l’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla (Cass. civ. SS.UU. 11.01.2008 n. 577).
In tale circostanza, quindi, si è precisato che l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, essendo però necessario, sia che l’esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente non possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella, sia che il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno (Cass. sez. 3, 12.06.2015, n. 12218).
Alla luce dei principi richiamati, la motivazione della sentenza impugnata non resiste alle censure formulate in ricorso; in effetti il giudice si è limitato a dare atto dell’acclarata insufficienza di elementi cognitivi in ordine alla modalità di esecuzione delle terapie e degli interventi per effetto dello smarrimento della cartella clinica e della indisponibilità di documentazione sanitaria inerente alla ricorrente, senza attribuire a tali elementi il rilievo probatorio che invece doveva esservi connesso.
La Corte di Appello ha quindi erroneamente ritenute corrette e condivisibili le argomentazioni del Tribunale di prime cure ribadendo che, l’onere della prova sulla sussistenza di un nesso eziologico tra le varie terapie prestate ed il peggioramento della salute, incombesse sulla paziente appellante e che tale onere non fosse stato assolto da quest’ultima e neanche corroborato dalle risultanze peritali.
D’altro canto la stessa Corte ha preso atto che: lo stesso consulente aveva dichiarato di non essere in grado di rispondere a nessuno dei quesiti postigli; l’ordine di esecuzione rivolto, sia alla struttura che alla Dott.ssa CM, non aveva sortito nessun esito, avendo dichiarato la prima, di non averla potuta reperire, mentre la Dott.ssa era rimasta pressoché silente; nessun consulente, come anche affermato dal CTU, avrebbe potuto esprimere un giudizio sul risultato del trattamento sanitario senza avere la possibilità di esaminare gli elementi diagnostici probatori antecedenti alle terapie; la stessa Corte di Appello ha poi inconfutabilmente ritenuto che non è stato acquisito alcun elemento al processo, che valga a corroborare l’assunto della paziente, secondo la quale le condizioni attuali costituiscono la risultante delle erronee scelte terapeutiche (in peius ) e relative non corrette modalità esecutive adottate dai sanitari.
A tutto ciò si aggiunge che la Corte di Appello, dopo aver nuovamente interpellato la CTU, che aveva ribadito che l’attuale stato della paziente può essere compatibile con il risultato ottenuto in seguito ad atti terapeutici corretti, non avendo per altro elementi per stabilire eventuali responsabilità dei sanitari coinvolti (essendo passati per altro oltre 9 anni), ha ancora una volta irrefutabilmente omesso di verificare la sussistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente nel caso come quello in esame, ove il medesimo nesso non poteva essere accertato proprio a causa della incompletezza della documentazione sanitaria, con argomentazioni per un verso tautologiche e per altro oscure, volte a ritenere non dimostrata la sussistenza dell’invocato nesso di causalità tra le terapie praticate dalla paziente rispetto a quelle originarie e precedenti.
Ritiene quindi il Collegio che tali argomentazioni non sono conformi alle regole in materia di riparto dell’onere probatorio e segnatamente al principio “l’ipotesi dell’incompletezza della cartella clinica va ritenuta circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, operando la seguente necessaria duplice verifica affinché quella incompletezza rilevi ai fini del decidere, ovvero, da un lato che l’esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno non possa essere accertata proprio a causa dell’incompletezza della cartella; dall’altro che il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno, incombendo sulla struttura sanitaria e sul medico dimostrare che nessun inadempimento sia a loro imputabile ovvero che esso non è stato causa del danno, incombendo su di essi il rischio della mancata prova”.
Vanno quindi accolti i motivi del ricorso con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione che definirà la controversia attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati.
Ulteriore arresto giurisprudenziale che conferma, per l’ennesima volta, come la scarsa accortezza della conservazione, custodia o redazione della cartella clinica, comporta che la responsabilità dei danni eventualmente cagionati a seguito di trattamento sanitari (non potendo essere adeguatamente provati attraverso la veridicità e la completezza della cartella clinica), venga addebitata, per il principio della vicinanza della prova, al sanitario oltre che alla struttura sanitaria.
Stesso principio può e deve essere adottato anche nei casi di scarsa o incompleta redazione della cartella infermieristica, ovvero, della consegna infermieristica, poiché è l’unico elemento documentale che ha il giudice chiamato a valutare la condotta del sanitario inadempiente o imperito per poter esprimere una valutazione sulla effettività della condotta o della eventuale responsabilità
Molto spesso colleghi ignoranti, nel senso etimologico del termine, ossia che ignorano, non conoscono le conseguenze di ciò che “non” fanno o omettono, sono convinti che scrivere troppo a volte sia deleterio, esattamente l’opposto di ciò che ci insegna la sentenza oggetto della presente esegesi.
Solo una adeguata documentazione delle attività svolte, che sia ovviamente attinente solo alla prestazione erogata e non certo a fatti che esulano del tutto dalle buone pratiche assistenziali, potrà scagionare dall’eventuale responsabilità l’infermiere o più in generale il sanitario, da ogni addebito a lui ascritto; è quindi oggi un dovere etico, ma soprattutto giuridico, la redazione di una documentazione clinico-infermieristica precisa e puntuale.
Dott. Carlo Pisaniello
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