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Epatite B: nuovi biomarcatori di controllo o riattivazione virale in corso di infezione e di terapia

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HBV: nuovi biomarcatori di controllo o riattivazione virale in corso di infezione e di terapia
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Questo l’argomento della relazione presentata dal professor Massimo Levrero al congresso SIMIT 2020.

I nuovi biomarcatori di controllo o riattivazione virale in corso di infezione da HBV e di terapia sono stati al centro della relazione del professor Massimo Levrero, dell’Università La Sapienza di Roma, in occasione del congresso SIMIT 2020. Come ha spiegato l’esperto, in molti pazienti guariti clinicamente dall’epatite B acuta è possibile ritrovare il virus nel fegato, sia sotto forma di sequenza integrata sia come intermedio replicativo (cccDNA). Questa situazione, insieme al fatto che il virus si può riattivare anche dopo la guarigione, è indice di un controllo immunitario dell’infezione.

Si potrebbero quindi razionalmente utilizzare degli approcci in grado di tenere sotto controllo quest’ultima. I determinanti della persistenza del virus in questa situazione di controllo, ma soprattutto nell’evoluzione dell’epatite cronica con replicazione attiva del virus, sono essenzialmente legati alla carica antigenica elevata a cui si associa l’epatite B, la quale induce una down-regolazione dell’immunità innata, che a sua volta si associa a una risposta infettiva dell’immunità adattativa e quindi alla persistenza del reservoir a livello epatico del cccDna (Dna circolare chiuso covalentemente).

“Se pensiamo all’epatite cronica – ha spiegato Levrero –, sappiamo che esistono diverse fasi di malattia e marcatori virali come target per il trattamento. Con i trattamenti attuali con analoghi nucleosidici non abbiamo nessuna attività diretta sul serbatoio principale del virus, il cccDNA, anche se a lungo termine la soppressione continuativa della replicazione virale porta a una riduzione di questo serbatoio. Questo significa che se non si è raggiunto un controllo immunitario dell’infezione, la replicazione ripartirà”.

La causa principale della persistenza del virus e quindi della difficoltà ad arrivare alla cura, è il cccDNA. Questa molecola si comporta come un “mini cromosoma” in quanto si “copre” di proteine cellulari virali per formare una vera e propria piccola cromatina, che viene regolata dagli stessi meccanismi epigenetici che controllano la funzione del genoma umano. Il cccDNA è la base (template) per la produzione di tutti gli RNA del virus, in particolare di un RNA chiamato pgRNA. Le sequenze integrate non sono mai responsabili della replicazione virale, quindi il materiale genetico integrato non produce mai un virione completo e non è mai responsabile delle riattivazioni.

I tre livelli di cura dell’epatite B – Come ha spiegato Levrero, esistono vari livelli di cura dell’epatite B. Esiste una cura funzionale caratterizzata dalla perdita di HbsAg con o senza sieroconversione, livelli di HBV DNA non osservabili nel siero, ma persistenza di livelli ridotti di cccDNA a livello epatico. In questo caso la riattivazione virale è possibile. SI parla poi di cura completa quando sia gli antigeni HbsAg che l’HBV DNA nel siero sono negativi, si ha una perdita di cccDNA nel fegato e non si ha possibilità di riattivazione. Infine, nella cura sterilizzante si ha anche un’eliminazione di tutte le sequenze integrate.

“Quando parliamo di cura completa e di cura funzionale dobbiamo pensare a due meccanismi, perché possiamo avere un silenziamento del ccc DNA, che è ancora presente senza dare segni di sé, perché non è trascritto per dare RNA virale e far continuare la replicazione virale, oppure avere un vera e propria clearance degli epatociti infettati da cccDNA – ha spiegato l’esperto –. È importante ricordare che quando pensiamo alla cura dobbiamo immaginare che il controllo immune dell’infezione e il controllo epigenetico possono essere la stessa cosa. Questo perché sappiamo che varie citochine prodotte dall’immunità innata e da vari componenti dell’immunità adattativa possono avere un effetto diretto sul cccDNA”, ha aggiunto il professore”.

Un’altra cosa importante che ha sottolineato Levrero è che nella cura parziale in cui non si ha la perdita di HbsAg, sono presenti ancora cccDNA, HBV DNA integrato e bassi livelli di HbsAg, ma non si assiste alla ripresa della replicazione e di tutti i marcatori virali. Questo potrebbe essere importante per la definizione degli endpoint per le nuove terapie.

Nuovi biomarcatori – Il gold standard sarebbe il poter misurare la presenza di cccDNA nel fegato e la sua attività, ovvero la produzione di RNA virale. In realtà, è molto difficile effettuare questo approccio diretto perché quest’ultimo necessita di una biopsia e quindi ci sono una serie di problemi di praticabilità e limitazioni tecniche nella valutazione quantitativa. Ci può essere anche una dissociazione tra i livelli di cccDNA e l’attività trascrizionale, ovvero la quantità di RNA che viene prodotta a partire da cccDNA, perché quest’ultimo può essere silenziato. Esiste anche la possibilità di non effettuare la biopsia, ma di adattare la “Fine-needle aspiration biopsy (FNAB)” per questo tipo di analisi virologiche. Resta comunque il problema della praticabilità.

“Per fare dei passi in avanti in questo senso – ha spiegato Levrero – abbiamo bisogno di identificare biomarcatori non invasivi, in grado di stratificare i pazienti per stadio di malattia e rischio di complicanze. Inoltre, questi marcatori dovrebbero identificare i soggetti da sottoporre a terapia e quando sottoporli o se è possibile interrompere il trattamento, predire buoni o cattivi flare di riattivazione virale in corso di terapia, identificare la risposta al trattamento precocemente e, per quanto riguarda i nuovi farmaci, essere capaci di identificare il “target engagement”, ovvero la capacità della molecola di cominciare ad agire sul suo bersaglio presunto. Infine, se vogliamo parlare di cura funzionale e completa sarebbe bello avere un biomarcatore che rifletta in modo adeguato la quantità di cccDNA nel fegato e la sua attività”.

I classici biomarcatori sono l’HBV DNA sierico e l’antigene E (HBeAg). La stratificazione dei pazienti in base all’HBeAg e all’HBV DNA sierico vengono utilizzati per stratificare i pazienti in base allo stadio di malattia, e vengono utilizzati per dare l’indicazione del trattamento. Queste analisi sono utili ma non riflettono in modo completo la complessità della storia naturale dei pazienti con infezione da HBV. L’HBsAg presente nel siero può essere prodotto sia dagli RNA che vengono trascritti a partire dal cccDNA, sia a partire da sequenze integrate.

La perdita di HBsAg rappresenta la definizione standard di cura funzionale ed è l’obiettivo delle nuove strategie terapeutiche. Questo target consente l’interruzione sicura del trattamento antivirale. Inoltre, la perdita di HBsAg si associa a una riduzione del rischio di epatocarcinoma in pazienti che hanno una soppressione con NUC. “Abbiamo bisogno di un biomarcatore surrogato della perdita di HBsAg da usare nelle fasi più precoci”, ha affermato il professore.

La quantità di HBsAg nel siero è correlata ai livelli di cccDNA nel fegato, ma questo è vero per i pazienti e-positivi, mentre molti studi dimostrano la non correlazione tra la quantità di HBsAg e i livelli di cccDNA, soprattutto la sua attività trascrizionale, nei pazienti e-negativi. I livelli di HBsAg sono stati anche correlati al rischio di sviluppare cancro nei pazienti e-negativi, così come i livelli di HBV DNA.

Un altro biomarcatore importante è il HBcrAg. È un biomarcatore composito che misura la proteina e, core e un intermedio della proteina pre-core e sembra correlare molto bene con l’attività trascrizionale del cccDNA. In alcuni studi questo biomarcatore è risultato anche un predittore del rischio di cancro.

È interessante la capacità di questo biomarcatore di identificare tra i pazienti e-negativi, un sottogruppo di soggetti con più attività trascrizionale, più fibrosi e più attività necro-infiammatoria, che non poteva essere identificato solo con i livelli di HBsAg e HBV DNA. Questo test però presenta delle criticità come ad esempio la ridotta sensibilità”, ha spiegato Levrero.

Ad oggi le conoscenze sulle caratteristiche dell’RNA circolante sono incomplete. Si sa che i livelli di questo tipo di RNA correlano con l’attività trascrizionale del cccDNA e che ci sono differenze nelle varie fasi dell’infezione.  Nei pazienti non trattati, i livelli di DNA sono mediamente 1 o 2 volte superiori a quelli dell’RNA e nei pazienti trattai con NUC la correlazione si perde. È stato dimostrato che i livelli di RNA possono predire la risposta all’interferone e la perdita dell’antigene e nei pazienti e-positivi. Questo test presenta delle criticità quali la non standardizzazione.

Livelli ridotti di HBsAg, HBcrAg e HBV RNA predicono un basso rischio di riattivazione dopo la sospensione del trattamento con interferone. Anche in questo caso, nuovi biomarcatori possono essere utili per selezionare i pazienti che possono interrompere il trattamento. Oggi i dati disponibili in questo ambito riguardano l’interferone e non si sa se i livelli sono predittivi anche per i pazienti trattati con NUC.

“In conclusione – ha detto l’esperto –, c’è molta eccitazione sui nuovi biomarcatori, ma non esiste un unico biomarcatore in grado di risolvere tutti i problemi. Molti ricercatori stanno arrivando a pensare che ci sarà bisogno di biomarcatori combinati e c’è ancora la necessità di un biomarcatore in grado di misurare la quantità di DNA integrato”.

Redazione Nurse Times

Fonte: PharmaStar

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