Una tenera storia che arriva dalla Russia e che fa riflettere sui meccanismi dell’ empatia: Luc, gatto disabile adottato da una clinica veterinaria quando era cucciolo, ora vive “aiutando” gli altri animali ricoverati.
Avrà appreso questo comportamento? L’empatia si può quindi imparare come afferma anche un recente studio? Dipende dall’intelligenza o da altri fattori?
In psicologia, in generale, il termine Empatia indica la “capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale”. Più in particolare, il sostantivo “indica quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica”.
Un “sentire dentro”, quindi (dal greco, “εμπαθεία”, empatéia, è a sua volta composta da en-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”), un “mettersi nei panni dell’altro”; capacità che, ad esempio, nelle mani di professionisti o mestieranti dell’assistenza socio/sanitaria, risulta essere un’autentica arma per migliorare la relazione d’aiuto e l’efficacia degli interventi erogati.
Ma… da dove nasce questa caratteristica? È insita in ognuno di noi o solo alcune persone ce l’hanno? Si può imparare? Insegnare? E… è una prerogativa soltanto umana?
Secondo uno studio recente pubblicato sulla rivista scientifica PNAS (VEDI), di cui ho parlato in un altro articolo (VEDI), l’empatia sarebbe un’arte che si può imparare, trasmettere ed allenare a qualsiasi età. Gli autori, infatti, affermano che basterebbero solo poche esperienze positive per far accendere un meccanismo di apprendimento dell’empatia in quei soggetti che sembrano esserne privi.
Tutte le persone sarebbero potenzialmente empatiche, quindi. Ma…gli animali? In loro esiste questo meccanismo? O sono solo gli istinti a governare le loro azioni, a causa del loro ridotto volume cerebrale? Gli scienziati sono da sempre riluttanti ad attribuire capacità empatiche ai non umani, eppure… il successo della Pet Therapy, utilizzata spesso proprio per insegnare l’empatia in determinate condizioni di disagio o patologiche, fa sospettare che l’outcome positivo che ne deriva nasca proprio dalla creazione di un vero e proprio “scambio” empatico tra animale e paziente. E, comunque, diversi studi hanno confermato la presenza di queste particolari emozioni anche nei cuori dei nostri amici a 4 zampe.
Ad esempio, una ricerca pubblicata su Science (VEDI), ha evidenziato come vi sia presenza di empatia, tradotta in “inequivocabili segni di comportamento consolatorio”, anche in animaletti dall’encefalo poco sviluppato come le arvicole delle praterie; scoperta che ha portato i ricercatori ad affermare che lo sviluppo dell’empatia sarebbe legato non tanto alle dimensioni del cervello, ma piuttosto all’organizzazione sociale di una determinata specie. E ciò è molto interessante… l’empatia dipende perciò dal contesto sociale in cui uomini o animali vivono e si ritrovano ad interagire coi propri simili?
Forse è proprio per rispondere a questa domanda che mi frulla in testa da diversi giorni, che oggi sono rimasto affascinato da una notizia proveniente da lontano; una vicenda che a primo acchito mi era apparsa come poco interessante, ma che poi mi ha fatto riflettere.
È la storia di un gatto di nome Lucifero, che è diventato un “infermiere” a tempo pieno della clinica veterinaria di Perm, in Russia. “Luc”, così lo chiamano amici e “colleghi” (forse per via del suo nome poco rassicurante), era solo un cucciolo quando è stato ricoverato nella suddetta clinica per un serio problema alla colonna vertebrale, dovuto alla caduta da una finestra. Problema che purtroppo lo ha portato a perdere l’uso delle zampe posteriori; condizione, questa, che ha spinto i responsabili della clinica verso la decisione di adottarlo. E così è stato.
Una storia già di per sé molto tenera e a lieto fine. Cosa c’entra l’empatia? Beh, il fatto strano è che da quando si è ristabilito… Luc, seppur nella sua condizione di disabilità, sembra convinto di dover aiutare gli altri animali ricoverati a riprendersi da interventi chirurgici e dalle malattie. Come? Passando ore sdraiato al loro capezzale, soprattutto di quelli nuovi arrivati e/o più gravi, e addirittura attirando l’attenzione degli operatori sanitari in caso di eventuali problemi.
Non essendo più in grado di muoversi agilmente come fanno gli altri gatti, Luc effettua quotidianamente quello che sembra un vero e proprio “giro” fra le sale della clinica, trascinandosi avanti con le zampe anteriori; e recandosi così, senza eccessiva fretta, in “visita” ai pazienti. Siamo di fronte alla solita esagerazione romantica messa in atto da qualche quotidiano? Forse.
Ma… perché questo felino si comporterebbe così? C’è una qualche spiegazione più razionale e meno romantica/empatica? Oppure… Luc è stato in qualche modo “contagiato” dall’ambiente in cui è cresciuto e che è votato indiscutibilmente all’empatia e alla cura?
Difficile saperlo con certezza. Fatto sta che questo micio sembra proprio passare il suo tempo ad “accudire”, anche se solo col suo “sostegno morale” e con la sua vicinanza, gli altri animali in difficoltà. Quasi a volerli tranquillizzare. Quasi a tenergli la zampa e a rassicurarli.
Un micio dal manto nero, dal nome “infernale” e dall’istinto infermieristico, Luc. Che ha oramai conquistato irreversibilmente tutti gli operatori sanitari del centro; ai quali porta diversi sorrisi durante i turni di lavoro e che oramai lo trattano quasi… come un collega. Che, invece dello stipendio, costa solo un paio di scatolette di carne al giorno e qualche carezza. Che forse a volte distrugge qualche foglio di carta e gioca come un pazzo in corsia, ma che… prende il suo lavoro molto seriamente.
Fonti: La Stampa, PNAS, Wired, Science
Immagini: La Stampa
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