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E se il “Diavolo” in persona chiedesse di essere assistito?

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E se il “Diavolo” in persona chiedesse di essere assistito?
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Proponiamo un nuovo contributo di Luigi D’Onofrio, nostro collaboratore dal Regno Unito.

Ovviamente il titolo di questo pezzo è provocatorio. Tuttavia, in Paesi come il Regno Unito e l’Italia, dove l’assistenza sanitaria universale e gratuita costituisce un caposaldo di civiltà profondamente, istituzioni e normativa presentano situazioni limite, nelle quali le nostre certezze deontologiche traballano. È il caso dell’assistenza a pazienti che si sono macchiati dei peggiori crimini, ma anche, sotto un’altra prospettiva, a chi si è consapevolmente aggregato a organizzazioni terroristiche, pur senza rimanere coinvolto in prima persona nei reati.

In questi giorni, ad esempio, sta suscitando molto clamore nel Regno Unito il caso di Shamima Begum (foto), cittadina britannica di origini bengalesi, fuggita nel 2015, a soli 15 anni, insieme a due compagne di college, per volare in Siria e diventare una “sposa” dell’Isis (in Gran Bretagna chiamato Daesh, col preciso intento di non riconoscere alcuna legittimazione, neppure nella denominazione, al sedicente Stato islamico di Iraq e Siria).

Mentre delle sue amiche si è persa traccia – una di loro, verosimilmente, sarebbe deceduta in un bombardamento aereo – Shamima è stata ritrovata da un giornalista del Times in un campo profughi in Siria, in avanzato stato di gravidanza. Di nuovo in fuga, quindi. Questa volta, però, a seguito delle disfatte militari del Daesh e dalla ritirata dai territori precedentemente conquistati. Da lì, attraverso i mass media, la giovane ha lanciato un appello che ha scosso le coscienze di una nazione e spinto giuristi ad aprire i tomi di diritto: “Fatemi rientrare in Gran Bretagna per partorire mio figlio, così potrà ricevere assistenza sanitaria”.

Benché perfettamente consapevole che un rientro nel Paese di cui è tuttora cittadina comporterebbe per lei un processo penale e un periodo di detenzione, Shamima è terrorizzata dalla prospettiva di vedere morire di stenti o di malattia anche il suo terzo nascituro, dopo aver già perso i primi due figli in circostanze simili.

Sotto il profilo giuridico, le possibilità che salga su un aereo e torni a Londra non sono solo teoriche, ma concrete. Il Regno Unito, infatti, può impedire il rientro di terroristi, ma solo fino a due anni. E non è in grado di revocare il passaporto a Shamima, poiché lei non ha una doppia cittadinanza, sebbene la sua famiglia provenga dal Bangladesh. Una revoca la renderebbe quindi apolide, in contrasto con le norme di diritto internazionale.

Per giunta, l’ipotesi di un rischio per il nascituro creerebbe una situazione di emergenza, in grado di attivare una sorta di “corridoio umanitario”. È questa, in effetti, l’ipotesi caldeggiata dalla famiglia, che sta valutando un’azione legale per il rientro della “Isis bride” nel Regno Unito.

Il problema è che Shamima non si è per nulla pentita delle sue scelte, né della sua militanza nel famigerato gruppo di terroristi islamici. È infatti ancora innamorata di suo marito, prigioniero delle forze siriane. Intervistata, ha poi dichiarato di non essere rimasta affatto sgomenta nel vedere gli aguzzini del Daesh gettare nei secchi dell’immondizia le teste di prigionieri barbaramente decapitati. Avrebbe invece preso le distanze dagli omicidi di confratelli musulmani.

Un suo rientro, pertanto, porrebbe seri problemi di gestione, tra la necessità di prevenire la radicalizzazione di persone a lei vicine e l’eventuale sostegno psicologico a chi, pur trovandosi dal lato dei “cattivi”, ha trascorso gli ultimi anni della sua adolescenza osservando orrori e atrocità.

Ma il punto non è cosa debbano fare, per Shamima Begum, la High Court of Justice (sezione antiterrorismo di Scotland Yard) e i servizi sociali. Il punto è che qui una vita è potenzialmente in pericolo. Anzi due, perché, in un contesto di precarie condizioni igieniche e di limitata o assente assistenza sanitaria, anche la giovane militante del Daesh potrebbe morire di complicazioni legate al parto.

In quanto professionisti sanitari, gli infermieri sono legati da un doppio vincolo: normativo e deontologico. Il Code of Ethics inglese, ad esempio, stabilisce che l’infermiere “deve evitare di fare illazioni e riconoscere la diversità e le scelte individuali” (art. 1.3), ma anche “rispettare e garantire i diritti umani” (art. 1.5).

In Italia, la Legge 833/78, istitutiva del Ssn, recita all’art. 1, in applicazione dell’art. 32 Cost.: “La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”.

Il Codice deontologico del 2009 rafforza questa dichiarazione di massima, stabilendo agli articoli 4 e 5: “L’infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona”; “Il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione è condizione essenziale per l’esercizio della professione infermieristica”.

In linea di principio, pertanto, donne come Shamima hanno pieno diritto, una volta rimpatriate, a ricevere assistenza sanitaria. Tuttavia, leggendo nelle nostre coscienze, potremmo dire di essere tutti pronti ad assisterla, scevri da pregiudizi e garantendo i medesimi standard, come richiesto dal legislatore e dal nostro Ordine professionale?

Luigi D’Onofrio
Italian Nurses Society

 

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