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Diritto all’oblio oncologico: solo stigma sociale o anche discriminante sanitaria?

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Diritto all'oblio oncologico: solo stigma sociale o anche discriminante sanitaria?
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Il progresso in medicina si misura dal grado di miglioramento dello stato di salute di una persona, da un punto di vista olistico, quindi non soltanto valutando il parametro dell’allungamento della vita, ma anche considerandone la qualità. In campo oncologico, si stanno portando avanti studi e ricerche scientifiche atte ad allestire strategie di cura, sempre più mirate e ancor più personalizzate, per la lotta ai tumori.

Sebbene l’obiettivo primario dell’oncologia sia la remissione completa dalla malattia, non meno importante, è il raggiungimento di uno stato di benessere psicofisico e sociale nella cronicizzazione della malattia. Occorre pertanto incrementare la promozione di una cultura di Survivorship Care, come raccomandato anche dall’Oms nel suo rapporto The need for rehabilitation services per limitare la disabilità ed eliminare le disparità.

La moderna medicina oncologica, infatti, educa anche a considerare il cancro, una malattia cronica con la quale si può convivere, mantenendo un buon livello della qualità di vita, facendo leva sulla resilienza psico-dinamica delle persone affette da questa patologia. Per tale motivo, gli anni di sopravvivenza dall’evento malattia oncologica, diventano un mero parametro statistico per i clinici, e non devono più guidare l’indicazione sullo stato di salute per la persona, in quanto concetto anacronistico e superato.

Chi lotta contro il cancro vince sempre, sia che sconfigga completamente la malattia, sia che lotti per dare tempo alla propria vita, valorizzando gli aspetti psicosociali ed emotivi. Le storie di personaggi pubblici come, la scrittrice Michela Murgia, l’inviata delle Iene Nadia Toffa, il calciatore Gianluca Vialli, il cantautore Lucio Battisti, ma anche di persone comuni come, Corrado, negoziante di alta moda, Tommaso, imprenditore e tifoso della Fidelis Andria, Teresa, madre e casalinga, Angelo, verde foglia caduta molto prima del suo inverno, rimarranno indelebili, nell’immaginario collettivo, per ciò che hanno fatto della loro vita, non per la loro malattia.

Per le persone “sopravvissute” al cancro, diventa impellente rivendicare il diritto all’oblio oncologico, per scucirsi di dosso il marchio di malato oncologico, quale mostrina, che ricordi, a se stessi i meriti per la tenace lotta vinta, e alla società, che nonostante tutto, si rimane diversi, reclamando il diritto di essere considerate persone sane.

Il diritto all’oblio oncologico è una norma di tutela che abolisce l’obbligo di dichiarare essere stati malati di cancro, al fine di evitare qualsivoglia discriminazione legata allo stato di salute di una persona; a stabilirlo nel 2022 è stato il Parlamento Europeo, con la raccomandazione che, tale norma, venisse adottata da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea. In Italia, lo scorso 7 Dicembre 2023, il Senato ha dato il via libera alla Legge n. 193, già approvato dalla Camera, che tutela gli ex pazienti oncologici dalle discriminazioni legate alla malattia.

Al malato oncologico è precluso un contratto di lavoro dignitoso, o la sottoscrizione di polizze assicurative a condizioni vantaggiose, o almeno standard, in quanto, non si pone credito ad una persona con pregressa malattia tumorale, perché fortemente stigmatizzata dal rischio di morte, valutato troppo alto.

Questo diritto è necessario, a causa della mistificazione e della condivisione anacronistica, del concetto di malato di tumore; il male incurabile è l’ignoranza, non il cancro. La Mission on Cancer, promosso dalla Commissione Europea, si prefigge l’obiettivo di salvare circa tre milioni di persone entro il 2030, attraverso la lotta al cancro e alla promozione della Qualità della Vita sostenibile libero da qualsiasi stigma sociale.

La riabilitazione oncologica interessa il corpo e la mente, è pertanto globale e personalizzata. Deve essere sostenuto il recupero fisico, nutrizionale, cognitivo, psicologico e sociale. Per reinserire le persone libere da malattia nel sistema lavorativo, farle tornare il più serenamente possibile in seno alle proprie famiglie e reintegrarle nella società civile, occorre gestire complicanze più o meno invalidanti, trattare gli effetti collaterali dei trattamenti farmacologici, recuperare le funzioni lese, convivere con disabilità anche gravi.

Il riconoscimento legislativo del diritto all’oblio per le persone guarite dal cancro, è da considerare una vittoria per la società e per quella fetta di popolazione che è tornata a godere di buona salute, dopo un percorso lungo e faticoso, fatto di interventi chirurgici, sedute di radioterapia e numerosi cicli di chemioterapia.

Ma, se per le persone guarite da cancro il diritto all’oblio rappresenta uno strumento per liberarsi dallo stigma sociale, per le persone che vivono quotidianamente la lotta, per quella grossa fetta di popolazione che vive il cancro come malattia cronica, diventa difficile esercitare il diritto all’oblio durante il percorso di cura; per loro è importante valutare il dovere alla considerazione multidisciplinare in fase di cura e trattamento, per non diventare vittime, oltreché di stigma sociale, anche di stigma sanitario.

Questa discriminazione si manifesta attraverso il pregiudizio clinico che il sanitario esprime nell’iter diagnostico e terapeutico del malato di tumore, il quale diventa una sorta di alieno, per la cui cura, tutta la medicina usuale, alza le mani. Ogni sintomatologia, ogni disfunzione d’organo, è riconducibile in automatico alla patologia oncologica; per cui, il medico oncologo e l’infermiere di oncologia, diventano gli unici sanitari a cui affidare le cure di questi pazienti.

Fatta eccezione per le consulenze specialistiche, il paziente oncologico viene rimandato all’oncologo non appena si legge, sulla scheda anamnestica, la parola cancro. Per una sorta di incantesimo, lanciato dal retaggio culturale, si cade in un circolo vizioso sanitario, per cui, il medico di medicina generale, non è più capace di riconoscere e curare una febbre, un’afta, una diarrea, perché la cura che conosce, fa fatica a trasporla sul malato oncologico.

Anche al triage di medicina di emergenza, non si riesce più a guardare il danno d’organo, ma la malattia cancro. Ragion per cui problematiche di competenza chirurgica, ginecologica, di medicina interna o di qualsiasi altra specialità medica, vengono fin da subito direzionate in oncologia, per tumore presente, sospetto

clinico o presunta progressione di malattia. Contravvenendo a qualsiasi appropriatezza clinica, il paziente viene inviato in oncologia a prescindere, negando una competenza più specialistica e di pertinenza che richiede l’accesso alla struttura sanitaria. La persona affetta da cancro vede nell’infermiere e nel medico, specialisti in oncologia, i propri salvatori, investendoli di competenze professionali e responsabilità medico-legali che vanno ben oltre quelle reali di propria pertinenza.

Questo stato dell’arte, da un punto di vista prettamente organizzativo, si traduce ad un eccessivo ricorso ai pronto soccorso, a ricoveri impropri in oncologia e malcontento del paziente e dei loro parenti che vivono situazioni familiari poco soddisfacenti. Questa è anche la denuncia di AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) secondo la quale, il fenomeno di disagio è destinato ad aumentare nella popolazione oncologica perché molte neoplasie oggi sono curabili e altre, grazie alle terapie, hanno un’aspettativa di vita lunga. La sopravvivenza alla diagnosi di cancro è migliorata, è realtà e non soltanto una speranza.

L’oblio oncologico deve rappresentare un atto inclusivo che permetta a tutti i malati oncologici guariti di sentirsi accolti e appartenenti alla società, godendo di opportunità senza alcuna discriminazione e di partecipare pienamente alla propria vita e a quella della comunità; e ai malati oncologici cronici di riappropriarsi di una dimensione intimamente delicata, è eticamente e clinicamente appropriato che l’informazione relativa al tumore sia presente nel proprio fascicolo sanitario, ma non nella propria memoria, ne in quella  di chi discrimina socialmente o di chi implementa il proprio pregiudizio clinico nell’offrire assistenza sanitaria.

Giuseppe Civetta

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