Dopo i fatti di violenza nei confronti della dottoressa della guardia medica in un paese della provincia di Catania, arriva dalla ministra Lorenzin parere positivo alle ispezioni sull’intero territorio nazionale per verificare le condizioni di lavoro
Un fatto di cronaca che ha sconvolto tutto il mondo sanitario. Di seguito il pensiero di Laura Binello dedicato alla dottoressa di turno alla guardia medica aggredita e violentata per ore da un giovane di 26 anni.
E’ già notte anche se sono arrivata in anticipo come sempre.
La nebbia da queste parti è micidiale, sembra un muro tra le case, le cose, le colline diventano masse informi, i palazzi sbiadiscono come in un quadro astratto, le strade tutte uguali (se solo il GPS si connettesse).
In che posto di merda sono finita questa volta? Non importa, son riuscita a prendermi sta “guardia” al nord per tre giorni no-stop, 800 km di treno per arrivare in questo buco di paese senza neppure un bar aperto a quest’ora.
Soldi, maledetti soldi. Punti, maledetti punti.
Tre giorni e tre notti e torno al mio sud. Questa volta sono nel sotterraneo di una scuola, credo, almeno mi pare di capire che sopra di me ci siano delle scuole.
L’edificio scolastico è nel bel mezzo di una piazza dove pare ci sia in corso il coprifuoco, neppure un’anima, neppure un gatto randagio, la randagia devo essere io.
Apro l’ambulatorio e la scena si ripete, da nord a sud, isole comprese.
Ambulatorio datato, armadi datati, lettino datato, strumenti datati, farmaci tutti da controllare, come sempre, ogni volta.
Il telefono dov’è? Il cellulare? La SIM? Le chiavi della macchina?
Ogni volta una caccia al tesoro ma io sono bravissima, so anche che probabilmente la macchina sarà senza carburante così come il distributore di bevande senza caffè.
Squilla il telefono e faccio un balzo come se fosse scoppiata una bomba, ogni volta è così al primo squillo, è ansia da prestazione, da qualche parte nel mondo c’è qualcuno che sta male e che sta cercando me, me che sono l’unico medico reperibile nel raggio di 100 km, unico, solo, pirla.
Un nome, una diagnosi, una via, un civico, un navigatore guasto, un cellulare da buttare, una borsa, una macchina.
Senza carburante. Notte. Tra le peggiori.
Il mio smartphone fa quel che può, le mappe diventano come pozzanghere nella nebbia, vedo un tubo e cerco di chiamare il paziente per farmi dare indicazioni.
Abbasso il finestrino dell’auto e vedo che sono su uno sterrato che porta dritto dentro un vigneto. Mi chiama il paziente, mi cade il telefono sul tappetino dell’auto, Google maps mi dice di tornare indietro, mi chiama anche mia madre che non ho ancora chiamato da stamattina.
Mi fermo. Chiudo le portiere dall’interno e piangerei tutte le mie lacrime se non fosse per quella bronchite cronica ostruttiva che mi sta aspettando.
Rispondo al telefono, sono miracolosamente vicina al civico bronchitico. Vedo nella nebbia una sagoma umana che mi viene incontro, a grandi passi, quasi correndo. Tremo. Potrebbe essere il paziente, il parente, un orco.
Buona la seconda. Esco da quella casa in mezzo al bosco che sono le due di notte, la nebbia si è alzata per fortuna e posso tornare, tornare dove?
Arrivo non so come in sede e prego Dio che tutti stiano bene in questo paese di lupi. Telefono muto.
Varco la porta d’ingresso e mi chiudo a doppia, tripla mandata, metto una sbarra di ferro che blocca la porta dall’interno (come da linee guida), sistemo tutti i telefoni accanto a questa barella, mi allungo un attimo, fa un freddo cane.
Non voglio assopirmi, non perché non ne abbia diritto, ma devo restare vigile, ascoltare ogni rumore, ogni fruscio, come un animale nel bosco.
Occhi sbarrati su un soffitto sempre uguale, fatto di paure, di precarietà, di desideri sciolti nella nebbia come nel mare.
Dio fa che stiano tutti bene e che venga giorno.
Giorno.
Fine Turno 20-08 x 3
Mamma torno a casa. Tutto a posto. Sono viva.
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