Angela era una tenera nonna arrivata da noi un po’ di tempo fa
Appena entrata in reparto, era davvero agitata e confusa. A tratti non riconosceva la stanza d’ospedale, chiamava spesso la figlia sperando di trovarla dietro la nostra bardatura.
All’inizio non accettava il letto in cui era costretta a stare, voleva tornare a casa, ma poi col passare dei giorni aveva cominciato a rassegnarsi. Non sopportava gli occhialini nasali e il saturimetro, se li toglieva continuamente, ma alla fine si abituò.
Poi, giorno dopo giorno, passammo alla Venturi, alla Reservoir, alla modalità respiratoria in CPAP. Accettò tutto, anche se con qualche sforzo da parte sua, e nostro.
Angela era entrata nel mio cuore. Appena arrivavo in reparto andavo subito a salutarla.
“Angelina” la chiamavo io “hai fatto la brava in mia assenza?” e lei mi sorrideva.
Parlavamo di tante cose, parlavamo di un mondo che esiste solo fuori da quelle quattro mura d’ospedale: di ricette, nel Natale che stava per arrivare, dei nipoti, del cielo che si vedeva dalle finestre, del freddo invernale che c’era.
Parlavamo, il più delle volte eravamo io e la mia collega a farlo perché lei aveva le sue difficoltà, mentre le cambiavamo le flebo, mentre le facevamo i prelievi, mentre la coccolavamo, la pettinavamo, le sistemavamo le fasce della maschera, mentre provavamo a farla mangiare, a darle qualche sorso di acqua.
Noi parlavamo, ma lei ci ascoltava sempre volentieri, eravamo una piccola distrazione.
Un giorno, mentre le sistemavo le solite cose, mi disse “sei tanto buona con me”, e io non ebbi la forza di risponderle.
Mi aveva colpito al cuore, e riuscii solo ad accarezzarla in volto.
Pian piano Angelina cominciò a parlare sempre di meno, e a desaturare sempre di più. Smise di mangiare, e passammo alla nutrizione enterale.
“Angelina sii forte, devi tornare a casa il prima possibile” le sussurravo.
In reparto abbiamo un tablet che consente ai pazienti di effettuare videochiamate ai parenti. C’è un momento, abbastanza preciso nella mia testa, che io chiamo tra me e me “la videochiamata d’addio”.
È il momento in cui mi chiedo se la videochiamata che sto aiutando a fare sarà l’ultima per il mio paziente.
Questo momento era arrivato anche per lei. Ormai stanca e abbandonata alla malattia, Angelina stava per salutarci.
Una sera notammo che era un po’ più presente del solito, e decidemmo di provare a fare la videochiamata, chiedendoci se potesse essere una buona idea, se lei riuscisse a capire cosa volevamo fare.
Fu un momento straziante, pieno di amore e dolore: figli e nipoti che le parlavano in lacrime di tante cose belle e le raccomandavano di stare tranquilla, e lei che li guardava e annuiva con la testa, a tratti riusciva ad accennare ad un sorriso.
Angelina capiva tutto, era lì presente, era con noi, e comprendeva tutto quello che le stava succedendo.
Io le mantenevo il tablet e osservavo tutto: lei, loro, le lacrime, il dolore.
Il dolore aveva colpito anche me: dentro quella barriera di tuta casco maschera e guanti, stavano scendendo lacrime per Angelina.
Rimanemmo cosi per circa 20 minuti, io col tablet in mano e loro che si salutavano.
Poi passò una nottata serena.
Quando tornai il giorno dopo in reparto, non c’era più. Nel suo letto c’era un nuovo ricovero. Abbassai lo sguardo e feci un sospiro.
Angelina, la mia tenera Angelina, aveva smesso di patire quelle pene strazianti.
Non è il sentirmi dire “questo è il vostro mestiere, ve lo siete scelto voi” a farmi più male, bensì la completa ignoranza altrui di ciò che viviamo in reparto. O le ripercussioni che questo momento storico possa avere sulla vita di tutti noi operatori sanitari.
Quando finirà tutto questo riusciremo a ritrovare la spensieratezza di un tempo?
Riusciremo a vedere il mondo con gli stessi occhi di prima?
Francesca Pia Biscosi
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