Il Trs “sarà presto messo in commercio con un vero e proprio kit”, fanno sapere dall’Azienda sanitaria territoriale dei Sette Laghi, che lo ha elaborato in collaborazione con l’Università dell’Insubria di Varese.
Il test rapido salivare (Trs) in grado di rilevare il coronavirus “funziona in pochissimi minuti e sarà presto messo in commercio con un vero e proprio kit”. Lo rende noto l’Azienda sanitaria territoriale dei Sette Laghi, che lo ha elaborato in collaborazione con l’Università dell’Insubria di Varese.
Il nuovo strumento, in grado di diagnosticare la positività al Covid-19 attraverso la saliva, “impiegando dai tre ai sei minuti”, funziona analogamente a un test di gravidanza. La saliva è raccolta su una striscia di carta assorbente e trattata con un apposito reagente: se compare una banda, il soggetto è negativo, se due bande, è positivo. Secondo la nota dell’Università dell’Insubria e dell’Asst dei Sette Laghi, sarà in grado di diagnosticare la positività anche su soggetti asintomatici, peculiarità importante alla luce della progressiva riapertura delle attività produttive.
A dirigere l’equipe che ha messo a punto il test sono stati il rettore dell’Università, Angelo Tagliabue, professore di Odontostomatologia, e Paolo Grossi, infettivologo referente regionale e ministeriale per l’emergenza Covid-19, su input di Lorenzo Azzi, ricercatore di Odontoiatria, e del professor Mauro Fasano, esperto in Biochimica. La realizzazione dei reagenti e dei kit è avvenuta nei laboratori dell’Insubria a Busto Arsizio (Varese) ed è stata coordinata dalla ricercatrice Tiziana Alberio.
Intanto il vaccino cinese PiCoVacc (definito “vaccino jolly” perché protegge da dieci ceppi virali isolati in diversi Paesi, Italia inclusa), basato su una forma purificata del virus SarsCoV2, funziona su topi e macachi.
Sotto i riflettori, invece, la cura con il plasma. “L’uso del plasma da convalescenti come terapia per il Covid-19 è attualmente oggetto di studio in diversi paesi del mondo, Italia compresa. Questo tipo di trattamento non è da considerarsi al momento ancora consolidato perché non sono ancora disponibili evidenze scientifiche robuste sulla sua efficacia e sicurezza, che potranno essere fornite dai risultati dei protocolli sperimentali in corso”. Lo scrive il ministero della Salute sul portale Donailsangue, dedicato ai donatori.
“Il plasma da convalescenti è già stato utilizzato in passato per trattare diverse malattie – spiega una Faq sul sito, gestito dal Centro Nazionale Sangue – e, in tempi più recenti, è stato usato, con risultati incoraggianti, durante le pandemie di SARS ed Ebola”. La terapia con plasma da convalescenti, spiega il sito, prevede il prelievo del plasma da persone guarite dal Covid-19 e la sua successiva somministrazione (dopo una serie di test di laboratorio, anche per quantizzare i livelli di anticorpi “neutralizzanti”, e procedure volte a garantirne il più elevato livello di sicurezza per il ricevente) a pazienti affetti da Covid-19 come mezzo per trasferire questi anticorpi anti-Sars-Cov-2, sviluppati dai pazienti guariti, a quelli con infezione in atto.
“Gli anticorpi (immunoglobuline) sono proteine coinvolte nella risposta immunitaria che vengono prodotte dai linfociti B in risposta ad una infezione e ‘aiutano’ il paziente a combattere l’agente patogeno (ad esempio un virus) andandosi a legare ad esso e neutralizzandolo. Si pensa che tale meccanismo d’azione possa essere efficace nei confronti del Sars-Cov-2, favorendo il miglioramento delle condizioni cliniche e la guarigione dei pazienti”.
Il plasma è a tutti gli effetti un farmaco, la cui efficacia clinica nelle persone affette da Covid-19 è stata dimostrata in molti studi aneddotici. Occorre, però, conoscere di più sul suo ruolo e sapere quando utilizzarlo e su quali pazienti. Lo spiega all’Ansa il professor Pier Maria Fornasari, ex primario ora in pensione dell’ospedale Rizzoli di Bologna, dove ha diretto il servizio trasfusionale e la banca dell’osso.
Se nella prima fase della malattia, afferma Fornasari, il plasma iperimmune, cioè con gli anticorpi del virus, “può essere utile a scopo preventivo”, più avanti, quando la situazione si aggrava, “potrebbe invece essere più indicato il plasma normale”. In ogni caso, sottolinea, “senza un coordinamento nazionale ed europeo, come sta avvenendo sui farmaci, rischiamo una dispersione di risorse”.
Nella prima fase della malattia, “la fase viremica”, per Fornasari, esperto di plasmaferesi, “andrebbe dato il plasma, in via preventiva, quando si vede un peggioramento, un’evoluzione verso la bronchite e poi la polmonite. Il plasma iperimmune, preventivamente, andrebbe riservato a quel 20% circa di pazienti ad evoluzione medio-grave”. Ma più avanti, quando si scatena l’abnorme reazione infiammatoria, il virus è in una quantità ridotta e allora a quel punto “potrebbe non avere senso immettere anticorpi”.
Redazione Nurse Times
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