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Coronavirus: l’epidemia in Italia non è conseguenza di quella cinese

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Coronavirus: l’epidemia in Italia non è conseguenza di quella cinese
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Nessuno dei migliaia di casi di coronavirus diagnosticati in Italia ha a che fare direttamente con il virus cinese.

I tre malati, due turisti e un italiano rientrato da Wuhan, che si sono infettati in quel Paese sono infatti stati isolati e non hanno trasmesso a nessuno la malattia.

Un’ulteriore conferma arriva dal fatto che il Covid-19 circolasse già in Italia quando è esploso il focolaio a Codogno e che i positivi fossero malati già di seconda o terza generazione nello studio epidemiologico pubblicato dall’Istituto superiore di sanità tenendo conto dei dati fino al 9 marzo, cioè di 8.342 persone positive al Covid-19.

La maggior parte dei casi (il 62%) riguardano persone di sesso maschile. I decessi invece riguardano prevale soggetti anziani. Pochissimi invece i casi tra i bambini di età inferiore ai 9 anni (0,5%), complessivamente soli 43.

Nella fascia di età tra 10-19 sono 85 (1%), in quella tra 20-29 sono 296 (3,5%), in quella 30-39 sono 470 (5,6%), in quella 40-49 sono 891 (10,7%), in quella 50-59 sono 1.453 (17,4%), in quella 60-69 sono 1.471 (17,7%), in quella 70-79 sono 1.785 (21,4%) e oltre 80 anni sono 1.532 (18,4%).

Come è possibile notare, dai 60 anni in su si concentrano oltre il 57% dei casi. La mortalità però è molto più spostata verso le classi di età più alte. Tra 40 e 49 anni c’è stato un solo decesso (0,3%), che diventano 3 tra i 50 e i 59 e 37 tra i 60 e i 69. Da 70 a 79 anni i decessi sono stati 114 (31,9%) e sopra 80 sono stati 202, cioè 56,6%.

Gli ospedalizzati risultano essere il 21% delle persone infettate, il 12% sono in terapia intensiva. Nessuno nella fascia di età 0-18 è finito in rianimazione. Il 10% dei ricoverati ha tra 19 e 50 anni, il 46% ha tra i 51 e i 70 anni e il 46% oltre 70 anni.

“Sono stati diagnosticati – scrivono dall’Istituto superiore di sanità – 583 casi tra operatori sanitari, indicando la possibilità di trasmissione nosocomiale dell’infezione. Questo dato potrebbe essere sottostimato in quanto per una parte dei casi, soprattutto quelli diagnosticati più recentemente, non è stata ancora completata l’indagine epidemiologica”. 

Dott. Simone Gussoni

Fonte: Repubblica

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