Nel secondo Congresso nazionale Apsilef (Associazione professioni sanitarie legali e forensi), tenutosi a Bologna dal 19 al 20 ottobre 2018, si è avuta l’occasione di un confronto professionale di alto livello.
Infatti numerosi “specialisti legali e forensi in sanità”, come indicato nel nome dell’evento, si sono ritrovati per condividere esperienze di crescita e linee guida univoche, inesauribile “collante” comune, in risposta alla necessità richiamata dalla recente Legge 24/2017, definita Legge Gelli-Bianco.
Nella II sessione è stato affrontato il tema delle consegne infermieristiche: argomento dolente, specie in questi momenti di crescita del paradigma del professionista, tanto sentito, ricercato e indispensabile per la sicurezza delle cure e dell’assistito, focalizzato dalla Legge in questione.
Ogni giorno, oltre ad avvertire l’avvilimento del problema del “fare”, che deve andare a braccetto col “saper fare”, entra in gioco la componente della tracciabilità del nostro operato. Chi pensa che chi meno scrive “più guadagna”, sprofonda in un abisso dai molteplici cunicoli e senza via d’uscita, con eventuali ritorsioni in sede di giudizio. Questo perché ciò che non hai scritto e formato prende “vita”, e oggettivamente e negativamente ne compromette l’aspetto pur positivo del proprio pregresso agito. Senza dimenticare che, per legge, ciò che non è stato scritto non è stato neanche fatto.
Sapere chi ha fatto cosa, dove, perché e a chi è elemento predominante in un processo clinico assistenziale specchiato, in cui si evidenziano linearità e trasparenza dell’azione. Linearità e consecuzione di azioni che devono trasmettersi utilmente ai colleghi in modo chiaro e completo, in un continuum logico di esplicazione del “to care”.
Riportiamo ora alla memoria alcuni esempi esplicativi, in cui la Suprema Corte ha giudicato, attribuito e cucito addosso, in diversi casi di passaggio delle consegne, una veste positiva e una negativa.
Positività
Una sentenza della Corte, sezione lavoro (27.799/2017), ha sottolineato e definito l’essenzialità e l’autorevolezza del passaggio delle consegne, passaggio di compiti con colleghi e superiori all’inizio o alla fine del turno, tanto da stabilire che il datore di lavoro debba retribuirne il tempo “sprecato” a compiere tale atto, riconoscendo la preziosità della consegna per quanto riguarda la diligenza prestazionale.
Indietro nel tempo, ritroviamo due sentenze emesse dal Tribunale di Firenze negli anni Novanta (Pretura di Firenze, sentenza n. 893/1994, e Corte d’Assise di Firenze, sentenza del 14 dicembre 1996), nelle quali il giudice, riscontrando la carenza di informazioni presenti nel diario clinico redatto dai medici, ha completato le informazioni mancanti, analizzando le cartelle infermieristiche, attribuendo loro la stessa valenza probatoria per stabilire le responsabilità penali, e addirittura lodando l’accuratezza della prestazione.
Negatività
Bisogna prestare attenzione, in quanto “consegnare” non prende il significato di “scaricare su altri il lavoro iniziato”, e neanche “delegare”, soprattutto in regime di urgenza. Quindi, il famoso “scaricabarile” è punito.
Un’altra sentenza della Suprema Corte (n. 9638/2000) sanciva che tutto deve essere eseguito in prima persona e nel contesto del proprio orario di servizio, confermando la condanna per omicidio colposo a tre infermieri del P.S. del Policlinico di Bari. Il caso in questione riguardava il volutamente mancato avviso del medico internista (con una semplice citofonata), così come indicato dal medico di guardia (che non visitò il paziente), per la consulenza a un giovane marinaio di leva con trauma cranico (caduto dal treno che tentava di prendere in corsa).
Il cambio turno del mattino era ormai vicino e i tre infermieri si limitarono a passare le consegne ai propri colleghi.
Ai loro occhi era sembrato che il paziente, seduto lì in carrozzina, in stato di torpore e sporco di vomito (dimostrando grave pregiudizio), potesse avere un semplice problema di alcolismo. Il problema fu che neanche il collega subentrante avvisò l’internista. Avvenne così che il povero marinaio, confinato in sala d’attesa, non diede più segni di vita, morendo pochi giorni dopo per un esteso ematoma cerebrale. Fatto ancor più grave, ad accorgersi dell’accaduto non furono gli infermieri o il personale sanitario, bensì l’agente di polizia in servizio al P.S.
In questa sentenza la Corte di Cassazione parlò quindi di reato da delega: gli infermieri non possono trasferire ad altri colleghi gli ordini ricevuti, ma devono eseguirli in prima persona nel contesto del loro orario di servizio, in quanto portatori di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti affidati loro. In poche parole, la posizione di protezione non poteva essere trasferita ai colleghi subentranti.
Fu la prima volta che in un’aula di tribunale si riconobbe il valore della responsabilità gravante sulla figura infermieristica, come dettato dalla vicina legge del precedente anno (L. 42/1999), nella quale si precisavano i riferimenti normativi distintivi dell’esercizio professionale. Da qui, fluidamente nello stesso 2000, la L. 251 ne sancì l’autonomia.
L’aumento di responsabilità e autonomia dei professionisti sanitari, riconosciuto dal pregresso percorso legislativo, ha innalzato senza alcun dubbio l’impegno e l’onere del proprio agire.
L’acquisizione di autonomia a forza ricercata non può che passare dal significato di tracciabilità responsabile del proprio operato. Una condotta positiva, incentrata sull’adeguata risposta sanitaria assistenziale, non deve però in primis tenere conto dell’ottica negativa del significato, cioè quello di dover risponderne una volta chiamati in causa, ma spronarci proattivamente e positivamente, con coscienza, come garanti a protezione di un bene primario quale la salute.
Giovanni Trianni
Infermiere legale forense
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