A Frome, nel 2003, la dottoressa Helen Kingston ha avviato un progetto che conferma gli effetti benefici delle relazioni sociali sulla salute. Molto dipende dall’azione delle citochine.
Frome è una cittadina come tante altre nel countryside, la campagna inglese, del Somerset. Spazi verdi e tipiche casette a schiera di epoca edoardiana o vittoriana, perfettamente preservate nei secoli. Insomma, il classico paesino, dove si immagina la gente intenta a sorseggiare un buon tè nei locali o a leggere un bel libro nel giardino dietro casa.
Il tipico scenario in cui ci si aspetterebbe di vivere una vita tranquilla, lontani dal caos, dalla frenesia, dallo stress, dall’isolamento che la vita quotidiana spesso riserva ai cittadini delle grandi metropoli. Diversamente dagli altri paesini del countryside inglese, però, Frome ha anche una vita comunitaria vibrante. Qualche anno fa, infatti, è balzata agli onori delle cronache per avere eletto al locale Consiglio comunale una lista indipendente, snobbando tutti i tradizionali partiti britannici.
A Frome c’è anche lo studio di Helen Kingston, un General Practitioner, l’equivalente inglese del medico di famiglia. Da qualche tempo, Helen ha notato che alcuni suoi pazienti lamentano di essere trattati con freddezza, come se fossero un insieme di sintomi, piuttosto che esseri umani con problemi. Sono individui che entrano ed escono dall’ospedale. In qualche caso le loro condizioni si aggravano. Anche lo staff del suo studio risente negativamente di questa modalità di lavoro, che genera una condizione di silo working, espressione anglosassone traducibile come “lavorare a compartimenti stagni”, cioè in assenza di un efficace scambio di informazioni tra diversi operatori e realtà sociosanitarie.
Helen ha allora un’idea e, nel 2003, lancia un’iniziativa: il Compassionate Frome Project. Col sostegno delle autorità locali e dell’NHS, recluta gruppi di volontari suddivisi in due categorie: gli health connectors, che aiutano i pazienti nella pianificazione/attuazione delle cure, e i community connectors, addestrati direttamente da lei. Questi ultimi iniziano a offrire un diverso tipo di supporto, prevalentemente economico e sociale. Si pongono, infatti, come intermediari per la risoluzione di problematiche economiche e abitative, oppure aiutano i pazienti a entrare a far parte di circoli sportivi, letterari, cori o gruppi musicali. Favoriscono, in buona sostanza, la loro piena reintegrazione nel tessuto sociale di Frome.
Il Project diventa oggetto di studio per tre anni. Al termine di questo periodo l’efficacia del programma di supporto contro l’isolamento sociale, in termini di prevenzione delle problematiche di salute, rivela outcome straordinari: mentre nel triennio 2013-2016 gli accessi nei pronto soccorso (A&E) di tutto il Somerset registrano un aumento del 26%, in quello di Frome diminuiscono del 17%. Una coincidenza stupefacente? Nient’affatto.
Decenni di ricerche hanno rivelato, in più circostanze, gli effetti benefici di forti relazioni sociali sulla salute: pazienti HIV positivi presentano valori inferiori del virus; donne con cancro colorettale e bambini negli orfanotrofi hanno migliori chance di sopravvivenza. Una famosa review meta-analitica di 148 studi, che includeva un campione di 300mila persone, pubblicata dal Public Library of Science Journal del 2010, dimostrò che le persone con una vita sociale più intensa presentavano una mortalità inferiore del 50% durante l’arco temporale oggetto dello studio (sette anni e mezzo), rispetto a quelli che avevano connessioni deboli o vivevano completamente soli.
L’evidenza di queste ricerche è stata spiegata dalla biochimica e va ricercata, in particolare, nell’azione delle citochine.
Questi messaggeri chimici del sistema immunitario contribuiscono alla risposta infiammatoria nell’organismo sottoposto all’aggressione di agenti patogeni. È invece meno noto che le citochine e la risposta infiammatoria in generale, come pubblicato in un recente studio della rivista Neuropsicopharmacology, sono strettamente connesse anche con il comportamento dell’individuo, generando affaticamento, anedonia, perdita di appetito, sonnolenza e, in generale, stati depressivi.
Per effetto della risposta proinfiammatoria e delle conseguenti variazioni alla sua condotta sociale, l’uomo viene così spinto a selezionare e ridurre i contatti con altre persone. Evita così situazioni di esposizione a potenziali rischi e privilegia il supporto di chi possa fornire un aiuto a favorire il recupero dell’organismo e a superare periodi di malattia, come familiari e amici.
In tempi moderni – tempi in cui molti di noi, soprattutto gli anziani, non hanno più nessuno che li coccoli o li abbracci – la risposta indotta dalle citochine determina un circolo vizioso: l’individuo ammalato si deprime, si allontana dal contatto con altri esseri umani. Tuttavia, rimanendo privo di ogni forma di sostegno, conserva nel proprio corpo elevati livelli di citochine, che contribuiscono a esacerbare le patologie, soprattutto quelle croniche.
L’esempio di Frome, insomma, fornisce una ulteriore conferma alle evidenze scientifiche che attribuiscono importanza vitale all’essere “animali sociali”. In una nazione come il Regno Unito, dove si stima che almeno un milione di persone vivano in condizioni di permanente isolamento, la solitudine sta diventando un vero e proprio allarme, non solo per le istituzioni sociali, ma anche per le strutture sanitarie. Non solo gli accessi in pronto soccorso, ma anche i ricoveri per ragioni sociali, ovvero di pazienti che vivono soli e presentano un elevato rischio di ricadute o non compliance alla terapia, sono aumentati sensibilmente negli ultimi anni.
Non è perciò casuale che, nella formazione del suo ultimo governo, Theresa May sia stata spinta a istituire, per la prima volta nella storia britannica, un ministero apposito: il ministero della Solitudine. In questo contesto, il Compassionate Frome Project rappresenta certamente un modello da trapiantare ovunque nel Regno Unito, dai piccoli borghi del countryside alle grandi metropoli.
Luigi D’Onofrio
Fonte: The Guardian
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