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Chiamarsi INFERMIERE…e se fosse un problema anche questo?

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Una riflessione… sul fatto che forse sia anche l’antico nome della nostra giovane professione, quello di INFERMIERE, a legarci saldamente alle mansioni e agli stereotipi del passato.

Pochi giorni fa, sulla mia bacheca Facebook, è stato postato da una collega infermiera questo messaggio:

Una frase ben nota, espressa dal presidente della Federazione Ipasvi, diceva: ‘Noi non dobbiamo essere più le braccia di un’altra mente pensante, ma le braccia della nostra mente pensante’. Qual’è il peccato di Adamo che non ci permette ancora di avere una nostra specificità ben precisa e di poter proteggere i nostri spazi e le nostre competenze?L’infermiere Tuttologo sta perdendo le proprie competenze?

Wow, domanda da un milione di dollari”, ho pensato. Ero lì per rispondere con delle mie opinioni a proposito dei più o meno noti problemi che ci impediscono di crescere, quando… per la prima volta, un elemento diverso ha catturato la mia attenzione. Qualcosa di scontato, per certi versi, che ho sempre avuto sotto al naso. Ma che solo, stavolta, mi ha fatto davvero riflettere.

Il nostro nome: INFERMIERE… derivante da ‘infermo’ (dal latino infĭrmus che significa debole, fisicamente o moralmente), inteso come costretto a letto o all’immobilità da una qualsivoglia malattia, e che in pratica significa: colui che si dedica agli ammalati.

Già, proprio quello che i vecchietti urlano come ossessi nei reparti di degenza, quando hanno bisogno della padella o del pappagallo per i loro bisogni fisiologici; non gridano “Operatore”, “Dottore” o qualcos’altro… strillano sgraziati: “Infermiere”! Oggi come 30-40 anni fa.

E se fosse anche il nostro nome, uno dei problemi che attanagliano la nostra giovane professione e che ci impediscono di crescere?

Sono tante le figure che hanno infoltito, nel tempo, il gruppo di chi eroga, in un modo o nell’altro, assistenza sanitaria: infermieri generici, infermieri professionali, infermieri, infermieri pediatrici, OSS e ora anche gli operatori socio sanitari “specializzati. Figure che adesso, inevitabilmente, generano una gran confusione nei media, nei cittadini e molto spesso anche negli stessi addetti ai lavori; che confondono i vari ruoli, le varie epoche e che non si sa bene per quale motivo, nel dubbio definiscono tutti “infermieri” (VEDI articolo). Sarà che è un nome facile, storico… vecchio. Ecco, per l’appunto: vecchio.

E se col decreto 739 del 1994 fosse stata istituita una nuova figura professionale chiamata in modo diverso, il suo percorso sarebbe stato lo stesso?

Chissà… Pensandoci bene, è forse anche il fatto di chiamarsi “infermieri” che ci lega, ancora oggi, indissolubilmente, alle mansioni e ai tanti stereotipi del passato; vecchiume, per carità, che però sembra davvero ancora molto attuale e difficile da sradicare dal nostro nome…

Anticaglia. Che continua ad essere tramandata alle nuove leve e che è fatta di informazioni fasulle, di “abbiamo fatto sempre così” e di caffè portati col sorriso, ancora oggi, ai medici di reparto. Ed è  qualcosa di atavico, di incrostato, di incancrenito nei muri dei nostri ospedali… e nel nostro nome.

Qualcosa che fa uscire dall’università migliaia di professionisti già ‘bruciati’ ancora prima di iniziare a esercitare; abbrutiti dalle strane dinamiche del tirocinio ospedaliero (VEDI articolo), confusi dall’evidente contrasto tra ciò che hanno studiato sui libri e quello che invece hanno vissuto in corsia; già pronti ad essere sfruttati, demansionati e trattati come sguatteri per dei contrattacci al limite dell’insulto, qualche ‘voucher’ o qualche spicciolo in regime libero professionale.

Ricordo molto bene un concetto che mi espresse un giovane medico, chirurgo ortopedico, durante il mio tirocinio come studente infermiere presso la sala operatoria di un ospedale della provincia romana. Eravamo in una pausa, gli feci alcune domande a proposito di un intervento chirurgico al ginocchio a cui avevo appena assistito e colsi l’occasione per chiedergli se e quanto, secondo lui, la formazione universitaria degli infermieri aveva migliorato la qualità dell’assistenza sanitaria.

Mi rispose: “Da sempre c’è il medico e chi esegue le sue direttive. Da sempre c’è il chirurgo e chi gli passa i ferri. Quello è l’infermiere. Sarà sempre così. Perciò non fatevi illusioni: la vostra laurea… non ha senso. Lei è una persona brillante: se davvero ha voglia di studiare… si dedichi ad altro”.

Rimasi perplesso, contrariato… basito. Quel “sarà sempre così”, legato al nome antico della giovane professione che avevo scelto, fu per me un forte schiaffo al mio entusiasmo. Uno dei tanti, presi in ospedale prima della laurea. E anche dopo.

Il nostro nome: INFERMIERE…

Aggiungiamoci poi l’assenza di ‘specificità’ (l’essere ‘tuttologi’), per certi versi giustificata con la visione olistica (…), lo scarso riconoscimento (economico e non), l’estrema precarietà lavorativa che genera dinamiche malate nelle equipes sanitarie (VEDI articolo), la troppo spesso scarsa preparazione degli studenti che riescono a conseguire la laurea in infermieristica con troppa facilità e il gioco è fatto: ecco una ‘nuova’ e bella categoria che per gran parte o non sa o non viene messa in condizione di essere davvero “responsabile dell’assistenza generale infermieristica”, che si definisce ancora “professionale” (VEDI articolo), che si accontenta di lavorare per 6 € l’ora, che risponde ad annunci di lavoro al limite della follia (VEDI articolo), che subisce spesso senza protestare il demansionamento più avvilente e lo sfruttamento più ignobile (VEDI articolo), che esegue gli ‘ordini’ di altre figure nonostante abbia la piena responsabilità di ciò che fa, che non legge, che non scrive, che non denuncia, che si fa sbeffeggiare dai media e che sa solo parlarsi addosso, lamentandosi sterilmente sui social network e tenendosi stretto il proprio misero orticello.

Che poi il resto lo faccia la latitanza degli organi di rappresentanza, siamo (quasi) tutti d’accordo, ma… c’è modo di uscirne?

Probabilmente è per noi giunto, cari dottori, il momento di svegliarci e di prendere in mano, finalmente, il nostro destino. Ognuno nella propria realtà. In modo da staccarci definitivamente dal passato e di imporre la nostra professione come tale; una volta per tutte. Con coraggio.

È necessario cancellare quel “professionale”, che è ancora troppo spesso presente nel nostro modo di definirci; dobbiamo smettere di accettare condizioni lavorative pazzesche; bisogna denunciare, studiare, leggere, scrivere, assumerci con consapevolezza le nostre responsabilità. E chiedere, tutti insieme e a gran voce, rispetto.

Smettendo così di aspettare inerti, quasi fossimo una “professione inconsapevole”, che altri (chi?) lo facciano per noi. E dando così nuovo lustro, visto che non lo abbiamo cambiato, al nostro nome. Quello di un “Professionista Intellettuale”. Di un “Dottore in infermieristica”.  Che tra mille problemi e difficoltà, continua a chiamarsi INFERMIERE.

Alessio Biondino

 

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