Lo rivela uno studio della Stanford University, condotto 33 neonati di età compresa tra zero e tre mesi.
Si chiama vasopressina ed è un ormone e un neurotrasmettitore cerebrale che potrebbe fungere da potenziale marcatore dell’autismo, e aiutare gli specialisti a formulare una diagnosi precoce già in età neonatale, ancora prima della manifestazione dei primi sintomi. A scoprirlo è stato un lavoro di ricerca condotto da specialisti della Stanford University, coordinati dalla dottoressa Karen Parker, e pubblicato sulla rivista scientifica Pnas.
Nel loro studio, spiega proprio un articolo apparso sul sito della Stanford University, sono stati analizzati i casi di 33 neonati di età compresa tra zero e tre mesi. Tra questi il biomarcatore era presente a livelli più bassi nel liquido cerebrospinale (quel liquido che circonda il cervello e il midollo spinale) in coloro a cui in seguito è stato diagnosticato l’autismo rispetto a quelli a cui non è stato diagnosticato.
Per arrivare alla loro tesi, i ricercatori hanno analizzato il fluido cerebrospinale, raccolto con una puntura lombare, e poi hanno seguito i bambini fino all’età di 12 anni. Dalle loro indagini, gli esperti hanno potuto comprendere come i neonati cui poi negli anni a venire è stato diagnosticato l’autismo avevano, per l’appunto, quantità molto basse di concentrazioni di vasopressina nel fluido cerebro-spinale, rispetto ai neonati del gruppo di controllo, in cui l’autismo non si è poi mai manifestato. La vasopressina, hanno spiegato gli esperti, è un ormone prodotto dall’ipotalamo, già testato dallo stesso gruppo di ricerca in via sperimentale come terapia per alleviare alcuni dei sintomi di soggetti autistici.
“Quando i bambini piccoli non elaborano adeguatamente gli stimoli sociali di base nella prima infanzia, il cervello si pone su una diversa traiettoria di sviluppo”, ha spiegato Parker, professoressa associato di psichiatria e scienze comportamentali. E sebbene l’autismo possa essere diagnosticato dai sintomi comportamentali intorno ai due anni, la carenza di specialisti spesso ritarda la diagnosi fino all’età di quattro anni o oltre, facendo perdere ai bambini i benefici del trattamento precoce.
“Se potessimo identificare questi bambini prima, potremmo intervenire prima”, ha detto l’esperta. Ora questo studio permette di aprire nuove frontiere nell’ambito, si tratta comunque di un passo importante anche se andrà ripetuto su un campione più ampio di bambini e soprattutto si dovranno cercare alternative all’iniezione lombare, che è una procedura sicura ma comunque invasiva per un neonato.
Redazione Nurse Times
Fonte: SkyTg24
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