Secondo un recente studio, la Glaesserella parasuis sembra avere le carte in regola per rivestire questo ruolo.
Fino a ieri la Glaesserella parasuis era considerata un anonimo batterio annidato nelle gengive dei ragazzi. Ma uno studio condotto da ricercatori della Patologia generale, della Microbiologia e della Reumatologia della Fondazione Policlinico Gemelli e dell’Università Cattolica, in collaborazione con le Università di Pittsburg (Usa) e Barcellona (Spagna), suggerisce che questo batterio potrebbe essere il “grilletto” scatenante la catena di eventi che porta all’artrite reumatoide.
Questo studio (nato diversi anni fa da un’idea dell’allora professore ordinario di Reumatologia, Gianfranco Ferraccioli) ora pubblicato su Frontiers in Medicine, dimostra infatti che la Glaesserella è “riconosciuta” dalle stesse cellule T, che aggrediscono il collagene di tipo 2 delle articolazioni dei pazienti con artrite reumatoide. Se questi risultati saranno confermati, si potrebbe ipotizzare una prevenzione dell’artrite reumatoide, basata su un vaccino o su una bonifica del cavo orale con antibiotici mirati, nei soggetti geneticamente predisposti alla malattia. Una vera e propria rivoluzione nella storia di questa patologia.
Nel tempo sono stati proposti diversi “candidati” trigger in grado di promuovere l’artrite reumatoide: tra questi, virus, micobatteri e altri batteri. Fino a oggi nessuno soddisfaceva i criteri per farne un possibile “colpevole” per una malattia autoimmune come l’artrite reumatoide. La Glaesserella parasuis sembra invece avere le carte in regola per rivestire questo ruolo.
“La Glaesserella parasuis – spiega il professor Francesco Ria, UOS Medicina di laboratorio, Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS e associato di Patologia generale, Università Cattolica, Campus di Roma – viene riconosciuta come ‘nemico’ dalle stesse cellule del sistema immunitario, che si scatenano contro le proteine self dell’artrite reumatoide. Uno dei sospetti autoantigeni, in grado di attirarsi le ‘ire’ della risposta immunitaria è una catenella di aminoacidi (la sequenza peptidica Coll261−273) del collagene di tipo 2, presente nella cartilagine delle articolazioni. Il sistema immunitario, a un certo punto della vita, per motivi finora sconosciuti, la riconosce come un elemento estraneo all’organismo, scatenandogli contro un attacco immunitario”.
Questo anello mancante potrebbe essere un meccanismo di “mimetismo molecolare”, cioè la somiglianza tra un agente patogeno esterno e una proteina costituente dell’organismo, che viene scambiata per il ‘nemico’ dalle cellule del sistema immunitario.
“Il rapporto causa-effetto dell’associazione tra Glaesserella parasuis e artrite reumatoide – spiega il dottor Gabriele Di Sante, primo autore del lavoro e ricercatore presso la Patologia generale dell’Università Cattolica, Campus di Roma – è suggerito da due prove indirette. La prima è che le stesse cellule T (si tratta di linfociti T specializzati, HLA-DRB1*04pos) che si attivano contro il collagene di tipo 2, si attivano anche in risposta al batterio. Queste cellule riconoscono come ‘nemica’ una sequenza di 9 aminoacidi (che potrebbe fungere da auto-antigene nell’artrite reumatoide) presente sia nel collagene di tipo 2 (Coll261−273), che in un peptide simile derivato dal batterio (il VtaA10755−766, che differisce da Coll261−273 per un solo aminoacido). La seconda prova di un rapporto causale è che la presenza del DNA di questo batterio è stata riscontrata nel 57,4% delle gengive dei pazienti con artrite reumatoide (contro il 31,6% dei controlli). In presenza di Glaesserella parasuis inoltre, le cellule T diventano più aggressive”.
“La presenza di queste cellule T specializzate – afferma la professoressa Elisa Gremese, responsabile UOS Diagnosi immuno-biologiche e trattamento LES, Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS e associato di Reumatologia presso l’Università Cattolica, Campus di Roma – identifica inoltre una popolazione di pazienti con una forma di malattia più grave e resistente alla terapia convenzionale, quella con DMARD (metotrexate, ecc) e che risponde invece ai biologici. Nei soggetti che sviluppano l’artrite reumatoide inoltre, questa infezione dura più a lungo o si verificano infezioni ricorrenti da parte di questo batterio, anche in età avanzata (mentre normalmente negli anziani la presenza di questo batterio nel cavo orale è meno frequente). Queste infezioni sono insomma ‘immunologicamente attive’, cioè risollecitano la risposta di queste cellule T”.
Certo, ci si potrebbe chiedere, ma se questo batterio è così frequente nel cavo orale (si trova in un giovane su due), perché poi non tutti sviluppano l’artrite reumatoide, che colpisce invece solo il 2% circa della popolazione? “Un’ipotesi – aggiunge il professor Ria – è che debbano verificarsi altre due condizioni. La prima è la presenza di un secondo batterio del cavo orale (il Porphyromonas gingivalis), in grado di modificare le proteine self, rendendole più attaccabili da anticorpi. Mentre Glaesserella parasuis agisce sulle cellule T, questo secondo batterio va a modificare le proteine dell’ospite, in maniera tale da renderle riconoscibili da auto-anticorpi. L’altra è che, perché si sviluppi la malattia, è necessaria una predisposizione genetica, data dalla presenza di alcuni alleli dell’HLA (DRB1), presenti in meno del 10% della popolazione. La presenza contemporanea di tutte e tre queste condizioni (Glaesserella parasuis, Porphyromonas gingivalis, HLA-DRB1), individua una popolazione ‘a rischio’, pari al 3% della popolazione generale”.
Questo batterio, mai descritto finora come patogeno per l’uomo, nel maiale causa una grave forma di artrite. Per anni si è cercato di scoprire se le persone che consumano molta carne di maiale o che lavorano negli allevamenti di suini presentino un’incidenza aumentata di artrite reumatoide, ma questo non è mai stato provato. Non ci sarebbe insomma nessun passaggio dell’infezione dal maiale all’uomo, mentre è possibile invece il contrario, cioè che la malattia passi dall’uomo al maiale, ovvero che sia l’uomo ad infettare il maiale.
“Le ricadute pratiche suggerite da questo lavoro (i cui risultati andranno confermati da altri studi) – conclude la professoressa Gremese – sono essenzialmente due. Una strategia di vaccinazione contro Glaesserella nella prima decade di vita e/o un’attenta prevenzione delle reinfezioni attraverso terapia antibiotica potrebbero aiutare a prevenire l’artrite reumatoide, a renderne meno grave il decorso e forse a riportare i pazienti a rispondere ai trattamenti tradizionali. Questo potrebbe rivoluzionare il futuro dell’artrite reumatoide. Per diagnosticare la presenza di questo batterio basta un’analisi PCR su un tampone del cavo orale. È noto che una cattiva igiene orale può fare da innesco a una serie di malattie. Molto importante è dunque, dal punto di vista della ricerca, lo studio del microbiota del cavo orale, mentre la raccomandazione per tutti è quella di curare con costanza l’igiene orale e in particolare la salute delle gengive, per cercare di ridurre questi rischi”.
Redazione Nurse Times
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