Un anticorpo monoclonale che agisce contro l’Alzheimer riducendo le placche di beta-amiloide, da lanciare in Europa l’anno prossimo. Lo sviluppo di un nuovo farmaco mirato a colpire la proteina Tau. Il lavoro per nuove formulazioni più a misura di paziente, come quella sottocute. Sono alcuni dei progetti che Biogen ha in cantiere per la malattia di Alzheimer, un campo sul quale sta intensificando gli sforzi, nonostante le difficoltà poste dalla patologia, che ha spinto anche alcune aziende ad abbandonare il campo.
“Prevediamo che per i prossimi 25 anni Biogen sarà coinvolta in modo significativo nella ricerca di nuovi trattamenti per questa malattia, oltre a fornire la terapia attuale”, spiega in un’intervista all’Adnkronos Salute il presidente e Ceo di Biogen, Christopher A. Viehbacher.
“Sull’Alzheimer abbiamo avuto una svolta – ripercorre il manager -. Con lecanemab, sviluppato con Eisai, abbiamo scoperto che avevamo l’anticorpo giusto per poter introdurre abbastanza farmaco nel cervello e ridurre le placche di beta-amiloide da poter effettivamente vedere un beneficio cognitivo. E ora sappiamo anche che prima trattiamo, prima che troppi neuroni muoiano, e meglio è. Per quanto riguarda l’Europa, la richiesta di autorizzazione per il farmaco è stata presentata alla agenzia europea del farmaco Ema nel gennaio di quest’anno. E se tutto andrà bene, ci aspetteremmo di ottenere l’approvazione nel primo trimestre del 2024. E ci aspettiamo di presentare in Ue anche la formulazione sottocutanea, di lecanemab-irmb, e gli altri progetti su cui si sta lavorando”.
Aggiunge Viehbacher: “L’Europa ha una popolazione più anziana rispetto alla maggior parte delle altre parti del mondo e l’Alzheimer è dunque un problema sanitario molto importante. Facciamo moltissima ricerca clinica in Europa”. Dai lunghi anni di ricerca e sviluppo ora si stanno raccogliendo i primi frutti.
“Biogen e molte aziende anche più grandi hanno speso decine di miliardi di dollari per trovare una terapia per questa malattia – ricorda il Ceo -. E inizialmente tutti hanno fallito. Ed è proprio a causa di questi fallimenti che la comunità neurologica ha iniziato a chiedersi se valesse la pena provare a rimuovere le placche amiloidi. I problemi da affrontare sono stati diversi: portare il farmaco al cervello che è ben protetto dalla barriera ematoencefalica; capire i pazienti giusti trattare, perché le placche stesse non causano il problema, ma creano una reazione biochimica che inizia a uccidere i neuroni. E una volta che si sono persi troppi neuroni, è molto difficile ottenere qualsiasi tipo di beneficio. Quindi le prime decisioni risentivano di queste problematiche”.
Poi c’è stata quella che Viehbacher definisce la svolta di lecanemab: “Questo farmaco contro l’Alzheimer è stato il primo ad avere la piena approvazione negli Stati Uniti – ripercorre -. E ora dobbiamo continuare a lavorare su altre cose. Oggi sappiamo che in realtà quando si manifestano i sintomi è quasi troppo tardi. E che le placche si iniziano a sviluppare 10-20 anni prima di manifestare un sintomo. Quindi abbiamo avviato uno studio, chiamato ‘Ahead’, che sta cercando di esaminare i pazienti prima che manifestino i sintomi”.
Un altro trial si pone il problema del ritorno delle placche, prosegue, e “stiamo esaminando una terapia di mantenimento che permetta di trattare i pazienti in modo da evitarlo”. Dal momento che i pazienti assumeranno questi farmaci più a lungo, è stato preso in considerazione anche il problema ‘logistico’. “In questo momento il paziente deve andare in un centro per l’infusione ogni due settimane – dice il manager -. Come possiamo rendergli la vita più facile? Per questo abbiamo sviluppato un’iniezione sottocutanea e la sottoporremo ad approvazione l’anno prossimo”.
Per quanto riguarda invece la lotta contro altri fattori implicati nell’Alzheimer, “a un’importante conferenza sull’Alzheimer, abbiamo appena dimostrato che un nuovo farmaco inibisce la Tau”. E’ un’osservazione che è stata fatta in “un piccolo numero di pazienti ed è allo stadio iniziale, ma abbiamo visto miglioramenti davvero significativi nell’Alzheimer”. Quindi “ora spenderemo centinaia di milioni di dollari nei prossimi anni per dimostrare che anche la riduzione dei grovigli di proteina Tau ha dei benefici”. Bisogna credere in tutti questi farmaci? “Sì, davvero. E continueremo a lavorare su questo”, conclude Viehbacher.
Redazione Nurse Times
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