Riceviamo e pubblichiamo un comunicato a cura del presidente Antonio De Palma.
Quanti sono gli infermieri italiani che, ad oggi, sono letteralmente “fuggiti” all’estero e che, alla ricerca di una legittima consacrazione professionale, economica e contrattuale, hanno alla fine trovato, negli ultimi anni, vere e proprie isole felici, in altre realtà sanitarie europee molto più gratificanti della nostra, e non intendono di certo tornare a casa?
Ce lo rivela una accurata indagine del team della divisione Engineering & Manufacturing di Hunters Group, società internazionale specializzata nella ricerca e selezione di personale altamente qualificato, sostenendo che sono 7mila i numeri ufficiali degli infermieri italiani che hanno trovato lavoro all’estero e che hanno scelto autonomamente di vivere lontano dal nostro Paese.
Ma il dato ancora più impressionante è che il 55% di loro non ha alcuna intenzione di tornare, il 30% è in attesa di un concorso per poter rientrare, ma le condizioni offerte dalle nostre aziende sanitarie, in tal senso, non sono certo allettanti, e il 15% è indeciso sul da farsi. Le destinazioni più ambite non sono una sorpresa: su tutte Germania, Spagna, Belgio e Svizzera.
Da cosa dipende la fuga di cervelli? La prima ragione è sicuramente economica: gli infermieri italiani, infatti, hanno gli stipendi tra i più bassi in Europa, ce lo ha ripetuto l’Ocse, ce lo hanno detto la Ragioneria dello Stato e l’indagine del Rapporto Crea Sanità. La loro retribuzione netta, secondo Hunters, si aggira intorno ai 1.400 euro al mese (1780 secondo la Ragioneria dello Stato al netto di straordinari e premialità, quindi con i numeri non siamo certo lontani), che sale a circa 2mila euro dopo molti anni in corsia e con un certo grado di specializzazione.
In Germania, nel Regno Unito o in Svezia, invece, lo stipendio medio si aggira intorno ai 2.500 euro netti mensili. In Svizzera, infine, siamo sui 3.300 euro netti al mese anche se dobbiamo considerare che il costo della vita è decisamente molto alto. Il secondo motivo è legato, invece, ai contratti. Solo uno su dieci in Italia, infatti, è a tempo indeterminato e questo porta molti professionisti a cercare opportunità migliori al di fuori dei nostri confini.
Non è finita certo qui. Quasi ogni giorno nuovi autorevoli report, e a volte ne arriva anche più di uno contemporaneamente, corroborano le nostre denunce sulla difficile situazione della realtà infermieristica italiana, nell’ambito del desolante quadro di un sistema sanitario che non riesce a scrollarsi di dosso la nube nera che sembra averlo avvolto.
Questo nostro comunicato, vuole mettere in evidenza ai cittadini, e non solo agli operatori sanitari, quali siano al momento le reali difficoltà che il nostro Ssn sta attraversando. Ci riferiamo a lacune strutturali di vecchia data, all’interno della sanità pubblica, che da semplici crepe nelle mura, purtroppo non risolte, rischiano con il tempo di far crollare, al primo scossone, quello che è diventato un fragile castello di sabbia».
Ai dati di Hunters Group, si unisce, infatti, l’indagine di Cittadinanzattiva, resa nota nei giorni della celebrazione della terza Giornata del personale sanitario, che aggiunge nuovi preoccupanti dati ai campanelli di allarme che negli ultimi mesi hanno contraddistinto le nostre campagne di comunicazione, dando un senso profondo ai nostri appelli, costanti, alle istituzioni, verso la necessità di unità di intenti, verso un pragmatismo, una sinergia, senza le quali non saremo mai in grado di uscire dal buio tunnel in cui siamo piombati.
Lasciamo che sia proprio il report di Cittadinanzattiva a far emergere ulteriori contenuti, quelli che per mesi il nostro sindacato ha già ampiamente raccontato alla collettività, ma che meritano di essere nuovamente citati, a dimostrazione che ciò che affermiamo da tempo nasce da una profonda e realistica analisi della realtà, corroborata da autorevoli indagini come le due che qui riportiamo.
La stima, secondo Cittadinanzattiva, è che oggi, tra ospedale e territorio, manchino, di base, circa 65mila infermieri. Sono dati che conosciamo bene, e che, lo abbiamo detto più volte, almeno per quanto riguarda gli infermieri italiani, rappresentano solo la punta dell’iceberg, visto che, rapportata agli standard europei, la voragine di infermieri di casa nostra è ben più ampia, e oscilla tra le 230 e le 350mila unità mancanti all’appello (Rapporto Crea Sanità 2023), anche e soprattutto per il gap di circa 2 punti che persiste nei confronti di altre realtà del Vecchio Continente (indagine Health at Glance dell’Ocse 2022), legato alla presenza, in Italia, di 6.2 infermieri in media ogni 1000 abitanti, rispetto agli oltre 8 dei nostri vicini di casa, fino a picchi di 8.8. Senza dimenticare che l’inesorabile invecchiamento della nostra popolazione ci condurrà, nel tempo, a conseguenze ben più gravi, rispetto ad altre nazioni.
Sempre Cittadinanzattiva fa notare che tra il 2010 e il 2020, in Italia, sono stati chiusi ben 111 ospedali e 113 pronto soccorso e tagliati 37mila posti letto. Segnali, questi, di quel pericoloso immobilismo, di quell’austerity, denunciata anche dalla nostre Corte di Conti, in relazione ad un Paese, il nostro, che non investe con continuità nel proprio sistema sanitario, ma si rimbocca frettolosamente le maniche, come è accaduto nella Pandemia, solo nei momenti di vera emergenza, ritrovandosi a gestire falle enormi con toppe che non sanano certo il problema alla radice.
Retribuzioni tra le più basse d’Europa, condizioni economiche poco gratificanti, offerte da bandi di concorso che a buona ragione vanno spesso deserti, carenze strutturali che si trascinano da anni nella sanità pubblica, tra turni massacranti e disorganizzazione: per quale ragione i nostri infermieri fuggiti all’estero dovrebbero decidere di tornare in massa a lavorare nel nostro sistema sanitario? E’ una domanda legittima che dovremmo porci.
Redazione Nurse Times
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