L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nell’Ottobre del 2016, ha lanciato la sua campagna globale sulla depressione e a corredo della stessa, sul suo sito istituzionale, ha lanciato una serie di poster e di video.
Uno di questi in particolare, ha colpito la mia attenzione già a partire dal titolo: “convivo con un grosso cane nero ed il suo nome è depressione”.
Nel video un uomo affetto da depressione spiega cos’è per lui la malattia (un grosso cane nero che lo sovrasta) e come venirne fuori, ricordando alla fine come con la depressione dovrà fare i conti per tutta la vita, nonostante ne sia venuto fuori.
In Italia, qualche anno fa, fu pubblicato un libro, che mi è stato di grande aiuto, dal titolo “E liberaci dal male oscuro”, scritto a due mani dallo psichiatra Giovanni B. Cassano e dalla giornalista Serena Zoli, che ha venduto più di 200.000 copie. Il libro affrontava in maniera innovativa la malattia sdoganando vecchi stereotipi legati alla stessa.
Io non so cosa sia la depressione, so tuttavia cosa sia vivere a stretto contatto con qualcuno che è stato colpito da questa malattia.
Nel corso di questi ultimi anni molte cose sono cambiate ed il merito è anche dell’attenzione che è stata posta nel ridurre la stigmatizzazione, che ha accompagnato per secoli questa malattia.
Se da bambina mi avessero spiegato con parole semplici che “essere depressi non significava essere pazzi” e che “non era colpa tua se tua madre non ce la faceva ad alzarsi dal letto”, anche solo per preparati da mangiare così come quando scompariva di casa, perché voleva farla finita e tu bambina sola insieme ai tuoi fratelli (mio padre a quell’epoca era spesso via per lavoro) disperavi di vederla rincasare, forse avrei vissuto con più leggerezza la mia infanzia. Invece mi è toccato crescere in fretta.
Mia madre credo che avvertisse la depressione come un peso, un macigno che le impediva di vivere in maniera serena, seppur con tutte le difficoltà di tirar su quattro figli.
Sono cresciuta portandomi addosso i riflessi di quel peso che schiacciava mia madre.
E’ vero, erano altri tempi. Tempi in cui ci si vergognava di dover ammettere che un proprio caro soffrisse di depressione. Tempi cupi, in cui si passava da un medico ad un altro, un neurologo, un internista, per arrendersi all’evidenza dei fatti e rivolgersi finalmente ad uno psichiatra, il “medico dei matti”.
Ed anche tra gli psichiatri era un passare da un tentativo di cura ad un altro, fino al momento in cui trovi finalmente la persona giusta, trovi lo/la psichiatra che non solo riesce a prescrivere la cura migliore, ma anche la terapia di famiglia più mirata e per arrivare a questo punto ci sono voluti “soltanto” 15 lunghissimi anni.
Altro che CANE NERO che ti sovrasta e non ti fa vivere la vita come avresti voluto!
Mia madre lentamente è riuscita a liberarsi da quel peso che la opprimeva, non è stato semplice ma ce l’ha fatta, ma penso a chi non è stato così fortunato, e mi vengono alla mente delle persone splendide che si sono lasciate sopraffare e che non ci sono più.
E’ stata dura, mia madre ha dovuto rimettersi in discussione e assieme a lei anche noi figli, perché intanto mio padre era venuto a mancare.
Cosa rimane di tutto quel dolore?
La consapevolezza che dalla depressione si può guarire e, che al tempo stesso, non bisogna mai abbassare la guardia. Adesso mia madre riconosce da sé quando è il caso di riprendere la terapia o quando è arrivato il momento di stopparla, riconosce gli abbassamenti del tono dell’umore e questo le e ci permette di vivere una vita pressoché normale, con alti e bassi come tutti.
Adesso nessuno penserebbe che mia madre è folle solo perché ha sofferto di depressione. Ma quanta ignoranza, quanta sofferenza.
Parafrasando il titolo di un libro di Cameron, non so se tutto questo dolore ci sia stato d’aiuto e/o abbia contribuito a renderci persone migliori, sicuramente ci ha reso capaci di aprirci e parlare, cosa che prima non facevamo.
La mia storia, non vuole suscitare pietismi o sentimenti di compatimento alcuno. Vuole solo essere un’occasione per discuterne e per spronare tutti coloro che ne soffrono e che provano a tenerlo per sé, ad aprirsi e a cercare aiuto. Non c’è nulla di cui vergognarsi. Questo è un peso troppo grande per riuscire a sopportarlo da soli.
Quindi, PARLIAMONE. Ammettere di aver bisogno è il primo passo verso la guarigione.
Rosaria Palermo
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