Nella pratica infermieristica, prendere decisioni in brevissimo tempo ed intraprendere azioni nei confronti dei pazienti è considerata espressione del proprio ruolo professionale
Il problema sorge nel momento in cui gli infermieri, in base alle proprie convinzioni morali, vorrebbero intraprendere azioni che risultano essere in contrasto con le consuetudini e/o l’organizzazione della struttura sanitaria in cui prestano servizio.
Questo non può che creare inevitabilmente una sofferenza morale negli infermieri, che si sentono impotenti ad agire come vorrebbero e dovrebbero.
Ne deriva automaticamente che venga dato sempre più risalto all’oggettività e all’evidenza scientifica in quanto dimostrabili e quantificabili.
Tutto ciò che è soggettivo come i sentimenti e che non può essere né quantificato né dimostrato, viene completamente trascurato o ritenuto poco importante.
Sappiamo quanto nel lavoro dell’infermiere siano importanti il connubio tra “SAPERE”, “SAPER FARE” e “SAPER ESSERE”.
Senza uno di questi elementi, l’infermiere risulta essere incompleto, il loro lavoro diviene sterile, un lavoro di routine.
La prima definizione di Moral Distress viene data nel 1984 da Jameton, filosofo statunitense, che la definisce nel suo libro di etica infermieristica come:
“una sensazione dolorosa e / o uno squilibrio psicologico provocato da una situazione in cui si conoscono le decisioni eticamente giuste da prendere, ma non si mettono in atto a causa di ostacoli istituzionali, come ad esempio la mancanza di tempo, il disinteresse di colleghi e superiori, la politica delle istituzioni o i limiti legali”.
In base alle sensazioni provate egli distingue il Moral Distress o sofferenza morale dall’incertezza e dal dilemma morale.
Secondo questo autore, “l’incertezza morale”, si riscontra infatti quando l’infermiere riconosce che i valori sono in conflitto, ma è incerto su quali siano i valori morali ed i principi etici implicati, o non possiede informazioni sufficienti sulla situazione del paziente (Hamrich, 2000, Schluter, et al., 2008).
Abbiamo invece un dilemma morale quando due o più principi etici, che richiedono azioni tra loro incompatibili, sembrano applicarsi alla stessa situazione, rendendo in tal modo difficile stabilire “cosa è giusto” e “cosa è sbagliato”.
Gli infermieri che sperimentano Moral Distress vivono invece una situazione nella quale comprendono quale sia il comportamento più giusto o adeguato, ma per svariati motivi non possono metterlo in pratica, trovandosi in tal modo a dover agire in modo contrario ai propri valori personali.
Dalle pubblicazioni di Jameton in poi, diversi ricercatori hanno studiato il fenomeno attraverso analisi teoriche e studi empirici per misurare il suo impatto nell’assistenza sanitaria, nel rapporto infermiere – paziente e per identificare le strategie utilizzate dagli operatori per fronteggiare o resistere al moral distress.
Una svolta si ebbe nel 1995 con l’ideazione, da parte di M. C. Corley, della Moral Distress Scale (MDS), basata sulla definizione di Jameton.
La scala prende in considerazione 21 item, a ciascuno dei quali viene assegnato un punteggio da 0 a 4, dal “Non frequente” al più “Frequente”.
Corley rilevò che il disagio conseguente al Moral Distress si ripercuote sull’attività degli infermieri, portandoli a volte ad una ricollocazione di ruolo all’interno dell’ospedale oppure, ancora più grave, tutto questo può portare gli infermieri ad essere insoddisfatti del proprio lavoro e al conseguente abbandono della professione.
In ambiente sanitario si parla molto di burn out, di strategie di coping, ma di Moral Distress se ne parla davvero poco.
È per questo che, in un altro studio, venne rilevato che le cause di Moral Distress spesso non vengono riconosciute nell’ambiente di lavoro da parte degli infermieri, né tanto meno da chi li coordina.
Ciò non permette al personale infermieristico di avere consapevolezza del rischio presente sul proprio equilibrio psicologico ed integrità morale e di mettere in atto strategie ed interventi adeguati per prevenire o impedire l’aggravamento del problema.
Altri autori in uno studio qualitativo effettuato su infermieri neo – assunti hanno rilevato che il Moral Distress è diventato una comune forma di conflitto etico per gli infermieri e sta diventando uno dei maggior problemi nella professione infermieristica.
Esso provoca uno sforzo fisico e mentale molto significativo, che colpisce gli infermieri particolarmente sensibili e comporta la perdita d’integrità morale ed una insoddisfazione nella loro attività.
Più recente, invece, la definizione di A. Nathaniel (2002) che afferma: “Un dolore che riguarda sia il corpo sia la mente ed inevitabilmente interferisce nei rapporti con gli altri, in risposta ad una situazione problematica, rispetto alla quale si è consapevoli di non aver tenuto un comportamento corretto e ci si sente perciò moralmente responsabili”.
Considerata la ormai cronica carenza di infermieri registrata nel nostro contesto sanitario, unita alla presenza di pazienti sempre più complessi, non sorprende che lavorare con un carico di lavoro considerato pericoloso sia la situazione fonte di maggior moral di stress.
In tantissimi studi condotti, questa situazione rappresenta una delle più alte e frequenti cause.
Si ritiene quindi che in questo caso sia legato al timore degli infermieri di compiere errori che possono danneggiare il paziente, oppure non offrire un’assistenza adeguata alle sue necessità.
Sono inoltre gli infermieri con minore esperienza professionale e che operano in area critica ad avvertire più questo disagio.
Ciò trova spiegazione nella paura che si ha di non riuscire a dominare prontamente le situazioni di emergenza data la poca esperienza. Si crede che gli infermieri che lavorano in area critica debbano necessariamente avere sangue freddo, capacità analitica e di problem solving avanzate.
Seppur vero, dobbiamo comunque ricordarci che ogni infermiere ha la sua identità emotiva e sentimentale che guida ogni singola scelta.
Studi recenti hanno evidenziato come alcuni reparti possano creare più Moral Distress di altri: i peggiori sono quelli in cui si evidenzia un clima organizzativo dove sono presenti conflitti, scarsa comunicazione in equipe e competizione.
Anche i fattori esterni all’unità operativa concorrono alla nascita del Distress negli infermieri: dimissioni premature di pazienti che hanno bisogno ancora di cure causata dall’ammortizzazione dei costi aziendali, la sostituzione di particolari medicazioni avanzate con materiale non di prima scelta.
Situazioni che portano allo sconforto una figura professionale che potrebbe e dovrebbe dare tanto.
Per concludere si può affermare senza dubbio che il Moral Distress è espressione di attenzione sensibile, disponibilità cognitiva ed emotiva, preoccupazione per le persone che ricorrono alle cure sanitarie. In altre parole è un coinvolgimento personale.
Il coinvolgimento emotivo non è facile da sostenere e l’esito non è sempre una cura più “umana”, perché il carico emotivo eccessivo rischia non solo di danneggiare il proprio equilibrio, ma anche di gestire in modo scorretto la relazione aumentando eccessivamente la distanza emotiva nel tentativo di proteggersi dall’ansia, rendendo così difficile la pratica della buona cura.
Nella relazione infermiere – paziente si tende a vedere chi riceve le cure come il solo soggetto vulnerabile.
In realtà anche chi ha cura è vulnerabile, poiché il coinvolgimento emotivo alla situazione dell’altro, espone anche chi cura a una situazione di analoga vulnerabilità.
Quindi è innanzitutto necessario imparare a gestire la propria vulnerabilità per non mettere a rischio la possibilità stessa della cura, facendo attenzione però a non incorrere nella situazione opposta di eccessiva distanza che impoverirebbe la relazione d’aiuto e dunque la possibilità di cura.
Per questo, sia nei percorsi formativi che durante gli anni di attività lavorativa, dovrebbero essere organizzati laboratori di riflessività sulla vita emozionale in cui dare spazio alla rielaborazione delle emozioni connesse alla cura. Ciò consentirebbe di raggiungere anche una competenza emotiva sia rispetto al paziente che rispetto a sè stessi.
Rispetto a sé, la competenza emotiva consiste nel saper conoscere le proprie tensioni emotive per essere in grado di usarle nella relazione.
Rispetto al paziente, tale competenza consiste nel saper avvertire il suo vissuto e nel trovare la giusta tonalità emotiva per costruire una buona relazione.
Credo che infermieri non si nasca, ci si diventi.
Insieme alle mille nozioni da imparare per essere un infermiere preparato e per saper rispondere alle necessità di cura del paziente, bisognerebbe accrescere le proprie capacità cognitive ed emozionali per poter raggiungere così la consapevolezza di quello che ogni giorno facciamo nelle camere di un ospedale.
Curare una persona significa anche entrare in contatto con la parte più intima della sua anima. Ne consegue che se non siamo noi stessi i primi ad avere consapevolezza dei nostri sentimenti non possiamo accompagnare le persone verso il loro percorso di cura.
Micaela Cuttitta
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